Una nuova Locale di ‘ndrangheta per mettere le mani sugli appalti

Carlomagno
foto arrestati operazione Banco Nuovo tra Brancaleone, Africo e Melito Porto Salvo. In alto i fratelli Alati
Foto di alcuni dei destinatari delle misure cautelari. In alto i fratelli Alati

Avevano creato una nuova locale di ‘ndrangheta con lo scopo di rigenerare trascorsi malavitosi messi ormai alla sbarra dalle operazioni di polizia degli anni passati. Un “Banco nuovo”, attraverso cui, sempre più agguerriti e raffinati, gli affiliati determinavano i destini di una silente e omertosa Brancaleone, centro ionico del reggino, mettendo le mani sugli appalti e avere in pugno politici, amministratori e burocrati che spesso erano costretti a subire minacce mafiose con all’interno del comune uno o più complici delle ‘ndrine sotto il comando dei fratelli Alati.

Sono due i filoni di inchiesta della Dda di Reggio Calabria con cui stamane è stata azzerata la nuova cupola di ‘ndrangheta che aveva l’egemonia sui centri ionici del reggino. Uno parte da un’omicidio di un ristoratore, l’altro appunto dalla pesante ingerenza della mafia sul comune di Brancaleone, totalmente asservito al potere criminale. Tutti in paese sapevano, ma nessuno ha mai denunciato niente.

L’ operazione Banco Nuovo, condotta a “quattro mani” tra Polizia e Carabinieri di Reggio Calabria ha portato all’esecuzione di 46 misure cautelari (31 in carcere, 6 agli arresti domiciliari e 9 all’obbligo di dimora). Un provvedimento emesso dal gip presso il tribunale di Reggio Calabria su richiesta della Dda guidata da Federico Cafiero de Raho. Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa (“un’organizzazione di ‘ndrangheta operante nel versante jonico della provincia reggina, dedita principalmente all’assegnazione dei subappalti, forniture di mezzi e materiali al fine di assicurare un’equa ripartizione dei proventi tra famiglie di ‘ndrangheta) falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, illecita concorrenza con violenza e minaccia, turbata libertà degli incanti, estorsione (tentata e consumata), rapina impropria, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (cocaina e marijuana), violazione della legge sulle armi (pistole di vario calibro e fucili), ricettazione, aggravati dal ricorso metodo mafioso,ovvero commessi al fine di agevolare la ‘ndrangheta, nonché di cessione di quantitativi variabili di sostanze stupefacenti.

Nel medesimo contesto operativo, sono state altresì effettuate perquisizioni domiciliari nei confronti degli stessi indagati. In particolare, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria ha disposto l’applicazione delle seguenti misure cautelari:

Custodia cautelare in carcere:

Annunziato Alati, nato a Brancaleone (Rc) il 1971;
Giuseppe Alati, Brancaleone (classe ‘62);
Pietro Alati, Melito di Porto Salvo (‘75);
Giuseppe Benavoli, Brancaleone (‘56);
Paolo Benavoli, Melito Porto Salvo (‘89);
Alessio Falcomatà, Melito Porto Salvo (‘92);
Nicola Falcomatà, Melito Porto Salvo (‘88);
Massimo Emiliano Ferraro, Melito Porto Salvo (‘76);
Cosimo Forgione, Melito Porto Salvo (‘84);
Giuseppe Forgione, Sinopoli (‘51);
Vincenzo Freno, Brancaleone (‘62);
Francesco Gligora, Locri (‘72);
Pasquale Lombardo Melito Porto Salvo (‘71);
Daniele Manti, Melito Porto Salvo (‘88);
Giuseppe Morabito, Locri (‘78);
Carmelo Morabito, Melito Porto Salvo (‘63);
Natale Morabito, Melito Porto Salvo (‘65);
Pasquale Morabito, Bova Marina (‘54);
Salvatore Morabito, Africo (‘76);
Daniele Nucera, Melito Porto Salvo (‘88);
Filippo Palamara, Brancaleone (‘62);
Giuseppe Palamara, Africo (‘68);
Salvatore Palamara, Bova Marina (‘63);
Francesco Patea, Melito Porto Salvo (‘89);
Pietro Perrone, Brancaleone (‘58);
Paolino Tripodi, Bruzzano Zeffirio (‘65);
Fabio Trunfio, Brancaleone (‘72);
Antonino Vitale, Melito Porto Salvo (‘75);
Antonino Zappia, Melito Porto Salvo (‘82);
Benedetto Zappia, Melito Porto Salvo (‘78);
Benedetto Zappia, Melito Porto Salvo (‘72);

Arresti domiciliari:

Michele Ascone, Gioia Tauro (‘61);
Giuseppe Mesiano, Brancaleone (‘59);
Giovanni Morabito, Locri (‘82);
Saverio Palumbo, Melito Porto Salvo (‘84);
Vincenzo Toscano, Melito Porto Salvo (‘86);
Domenico Vitale, Torino (‘74).

Obbligo di dimora

Stefano Benavoli, Melito Porto Salvo, classe 1992;
Fabio Bonanno, Melito Porto Salvo, (1983);
Paolo Costantino, Svizzera, classe (’73);
Stefano Cristiano, Brancaleone (‘66);
Giovanni Cuda De Cicco, Lamezia Terme (‘82);
Giuseppe Gallo, Reggio Calabria (‘84);
Salvatore Ielo, Reggio Calabria (‘76);
Sebastiano Profazio, Palizzi (‘65);
Nicola Sciglitano, Reggio Calabria (’92).

Nel corso delle operazioni sono stati arrestati in flagranza di reato:

Vincenzo Toscano, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 02.08.86 (destinatario della misura degli arresti domiciliari) è stato arrestato a Milano per detenzione di una pistola beretta cal. 7.65 con matricola abrasa;

Giuseppe Gallo, nato a Reggio Calabria il 08.07.1984 (destinatario dell’obbligo di dimora) è stato arrestato a Ventimiglia (IM) per detenzione al fine di spaccio di 753 grammi di cocaina.

Nel procedimento sono confluiti gli esiti di due diversi, ma convergenti, segmenti di attività d’indagine svolte con riferimento alla criminalità organizzata di tipo ndranghetistico, radicata in Africo Nuovo, Motticella, Bruzzano Zeffirio, Brancaleone e zone limitrofe.

L’operazione Banco Nuovo

In particolare, il Gruppo dei Carabinieri di Locri ha curato le indagini scaturite dall’omicidio del ristoratore di Brancaleone (Reggio Calabria) e proprietario del ristorante “Venezia” Luciano Criseo, avvenuto a Brancaleone il 28 marzo 2009, con le quali è stato possibile accertare complessivamente una massiva infiltrazione della ‘ndrangheta nel settore degli appalti pubblici ed il potere di condizionamento mafioso degli organi istituzionali pubblici (cosiddetta informativa “Venezia”).

Il secondo segmento investigativo è costituito dalle attività condotte dalla Squadra mobile di Reggio Calabria e dal Commissariato di pubblica sicurezza di Condofuri, da cui sono emersi reati in materia di armi e di stupefacenti da parte di un gruppo criminoso “di nuova generazione” venutosi a creare in Brancaleone, ovvero la nascente cellula denominata “CUMPS” dai suoi stessi appartenenti, lembo di territorio che è sempre stato considerato sotto il controllo del locale di Africo (conosciuta come informativa “Cumps”).

Fin dall’avvio delle investigazioni è emersa l’appartenenza degli indagati alla ‘ndrangheta, nelle diverse formazioni operanti sui centri di Brancaleone, Africo e Bruzzano Zeffirio, con particolare riferimento ai nuovi assetti organizzativi e ai ruoli rivestiti dai singoli affiliati, rimodulati a seguito della “pace” venutasi ad instaurare tra le diverse cosche dopo la sanguinosa faida di Africo-Motticella, che aveva visto affermarsi i gruppi “Palamara-Scriva” e “Mollica-Morabito”.

Tale tendenza alla rimodulazione degli assetti – funzionale al controllo dei pubblici appalti nell’area di influenza – trova specifica conferma nelle indagini che hanno interessato il territorio di Brancaleone, documentando come il processo di riorganizzazione abbia dato origine ad un “Banco nuovo”, con una nuova locale e la conseguente ridefinizione dei ruoli dei singoli affiliati. Già nell’operazione denominata “Crimine” si aveva modo di apprendere come: “…Le complessive acquisizioni investigative consentono di affermare che il termine “fare il banco nuovo” è sinonimo di “fare un nuovo locale” e, di conseguenza, costituire al suo interno una “nuova società” con tanto di “cariche”…”.

È stata accertata la persistente intrusione della ‘ndrangheta nella gestione dei lavori e delle opere pubblici, sia per quanto concerne il movimento terra, il trasporto e la fornitura di materiali inerti, sia con riferimento alla fornitura di mezzi e di manodopera, oltre che al pesante condizionamento degli organi istituzionali pubblici.

Premesso ciò, va detto che il lavoro investigativo della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri ha trovato un’armonica convergenza nel reperimento di elementi in ordine al gruppo facente riferimento, tra gli altri, a Nicola Falcomatà e Paolo Benavoli.

Il risultato delle due indagini consente di affermare, da una parte, l’esistenza di una predominanza delle famiglie di Africo e Bruzzano sul territorio di Brancaleone e, dall’altra, l’esigenza di creare autonomi gruppi di famiglie di Brancaleone che, sempre nell’ottica della visione unitaria della ‘ndrangheta, abbiano l’autonomia decisionale e operativa sul proprio territorio.

Al “Banco nuovo” di Brancaleone sono affiliati i fratelli Annunziato, Pietro e Giuseppe Alati con un ruolo di assoluto rilievo nel condizionamento delle scelte di quell’amministrazione comunale. Figura di spicco è risultata indubbiamente quella di Annunziato Alati, quale gestore di fatto della ditta Tripodi Veneranda e titolare di un’impresa individuale di movimento terra, pulizia strade ed aree verdi, acquedotti e fognature, che attraverso continue e ripetute minacce ha sistematicamente sbaragliato la concorrenza di altri imprenditori del settore, monopolizzando il mercato e aggiudicandosi ogni pubblica commessa.

In tale direzione sono confluiti anche gli esiti di ulteriori attività investigative delegate dalla  Distrettuale antimafia al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale Carabinieri di Reggio Calabria (nel contesto dell’operazione “Ecosistema”, che aveva toccato anche l’amministrazione comunale di Brancaleone) ed al Commissariato di di Bovalino; esiti che confermavano l’ingombrante presenza del gruppo Alati nel contesto criminale di Brancaleone e le pressioni sull’amministrazione comunale di quel centro.

Le indagini hanno restituito, impietosamente, l’immagine di un comune, quello di Brancaleone, di fatto ostaggio dei componenti della famiglia Alati e dei loro metodi tipicamente mafiosi: era ben nota anche agli stessi amministratori comunali la forte influenza di Pietro Alati, fratello di Annunziato e impiegato presso l’ufficio tecnico del Comune di Brancaleone, aduso a condizionare, con metodi tipicamente mafiosi, l’affidamento dei lavori in somma urgenza. I motivi della mancata denuncia sono da ricercare nel sostegno politico che l’amministrazione comunale in carica, nel 2014, reduce dal secondo mandato consecutivo, ha sempre avuto dagli Alati, ricompensati, soprattutto nel quinquennio precedente, con il sistematico affidamento dei lavori in somma urgenza.

Non sono peraltro mancati i tentativi di resistenza degli amministratori, come l’adozione di meccanismi di rotazione tra gli imprenditori destinatari delle commesse comunali: tali buoni propositi, però, si sono infranti contro il clima di terrore imposto dagli indagati, che, ricorrendo a metodi intimidatori tipicamente mafiosi, hanno costretto gli altri imprenditori del settore a rifiutare i lavori che gli amministratori intendevano affidare loro.

Di tutte le numerose condotte intimidatorie documentate nel corso delle investigazioni, hanno un valore particolarmente significativo gli eventi del 10 luglio 2014, allorquando i fratelli Annunziato e Giuseppe Alati irruppero nel corso di una seduta della Giunta comunale di Brancaleone per minacciare apertamente il sindaco e gli amministratori presenti, intimando loro di assegnare i lavori di manutenzione idrica nel territorio comunale ad Annunziato, in esclusiva, senza alcuna rotazione tra le ditte da incaricare e non dando corso alla gara ad evidenza pubblica già indetta.

Se da una parte l’interesse delle cosche per gli appalti pubblici ha condizionato la rimodulazione degli assetti territoriali, dall’altra la consapevolezza del maggior rischio derivante da scontri armati ha generato, anche nei territori di Africo Nuovo, Brancaleone e Bruzzano Zeffirio, nuovi accordi per lo sfruttamento parassitario: nel corso dell’indagine sviluppata dai Carabinieri è stata documentata, in particolare, l’esistenza di specifiche intese per la spartizione degli appalti, riservando quelli superiori alla soglia di 140/150mila euro esclusivamente alla locale di Africo, mentre quelli al di sotto di tale soglia sarebbero rimasti appannaggio delle cosche del territorio, senza alcuna ingerenza africota.

Proprio in ragione di tali accordi, l’esecuzione di diverse opere pubbliche – sia per quanto concerne il movimento terra, il trasporto e fornitura di inerti, sia per la fornitura di mezzi e manodopera nell’area di riferimento – è stata portata avanti senza che la ditta appaltatrice o le ditte interessate a qualunque titolo ai lavori abbiano patito danneggiamenti.

Non sono mancate, tuttavia, eccezioni alla regola, determinate essenzialmente dall’avidità dei singoli affiliati: in particolare, per l’appalto che prevedeva il consolidamento del cimitero di Brancaleone, ove nonostante l’importo dell’opera fosse decisamente inferiore a quello della soglia stabilita, la cosca africese riusciva ad inserirsi nella gestione indiretta dell’appalto, oppure nei piccoli lavori di manutenzione della caserma dei Carabinieri, per i quali preventivi accordi orientati dagli affiliati determinavano l’aggiudicazione a favore di una impresa compiacente, che lasciava eseguire l’opera a soggetti indicati e che canalizzava la remunerazione dell’appalto all’affiliato che si era adoperato per l’intermediazione.

Peraltro, le conversazioni captate dei militari dell’Arma confermano come la sistematica infiltrazione negli appalti prescinda dalla stazione appaltante di riferimento e dal pur pesante controllo intimidatorio degli organi amministrativi istituzionale. Ne sono riprova, in particolare, le evidenze relative ai lavori di pulizia della strada provinciale che collega la frazione di Marinella a Bruzzano Zeffirio: benché l’opera prevedesse una pulizia dei bordi della strada per tutto il tratto della provinciale, gli operai dell’impresa aggiudicataria, una volta entrati nel comune di Bruzzano per proseguire i lavori, venivano avvicinati e veniva loro intimato di non “sconfinare” e a non proseguire nella zona di Bruzzano, poiché di pertinenza di un’altra cosca.

Analoga situazione è stata riscontrata dai Carabinieri di Bianco nel 2013, con riferimento alla conduzione dei lavori di ristrutturazione della Chiesa del “Santissimo Salvatore” della frazione Motticella, circostanza in cui l’imprenditore incaricato dell’opera è stato avvicinato da affiliati alle ‘ndrine di Bruzzano che gli hanno imposto le forniture dei materiali ed estorto denaro contante.

Nella parte curata dalla Polizia di Stato, le indagini hanno consentito di individuare gli appartenenti al gruppo criminoso riconducibile a Falcomatà ed a Benavoli come soggetti legati alla figura di Saverio Mollica, classe 1958, (fratello di Domenico Antonio Mollica, classe ‘67, coniugato con Maria Morabito, di Africo (classe ‘69), sorella, a sua volta, di Carmelo Morabito, classe ’63, e Natale Morabito, classe ‘65, esponenti di spicco della consorteria mafiosa Morabito detti “Larè”).

Saverio Mollica è soggetto che, dagli atti della nota inchiesta “Il Crimine”, aveva la sua volontà di acquisire la completa egemonia dell’intero comune di Bruzzano Zeffirio. Ebbene, nelle conversazioni intercettate nel veicolo di Filippo Palamara, i menzionati Falcomatà e Benavoli erano dipinti come soggetti che manifestavano insofferenza per gli africoti, manifestando l’intendimento di affermare la loro supremazia sul territorio di Brancaleone.

Contemporaneamente, un altro filone della medesima indagine consentiva di dare una chiave di lettura alla recrudescenza dei fenomeni criminali che avevano caratterizzato il territorio di Brancaleone in quel periodo, collegando gli stessi alla costante presenza in quel Comune di appartenenti alla criminalità organizzata africese, che si sono lì stabiliti, inquinando il tessuto sociale della cittadina jonica, anche attraverso l’acquisizione di attività economiche sane e floride.

Il riferimento è ai fratelli Bartolo Morabito, Giuseppe e Giovanni di Rocco che contando sull’appartenenza al casato criminale dei Morabito di Africo, il cui indiscusso capo bastone nel tempo è Giuseppe Morabito classe 1934, nonché sul suo vissuto criminale, avevano riunito intorno a sé un nutrito e coeso gruppo di giovani, per lo più residenti in contrada Razzà di Brancaleone o vie limitrofe alla stessa, le cui gesta e la cui struttura organizzativa appaiono aver da tempo superato la fase embrionale della costituzione di un’autonoma cosca.

Ad attestare la continuità nel tempo dei rapporti tra i predetti personaggi militano i risultati dell’attività d’indagine che permetterà di accertare l’esistenza di uno strutturato sodalizio nella cui disponibilità rientrava un appartamento allocato al piano terra del complesso residenziale “San Michele”, situato sempre in Brancaleone, dove in particolare il Bartolo Morabito era aduso a incontrare Rocco Falcomatà ed i figli Alessio e Nicola, Vincenzo Toscano e Francesco Patea.

Deve osservarsi, inoltre, che l’impegno investigativo profuso dal personale del Commissariato P.S. di Condofuri permetteva, in data 18 febbraio 2011, di ritrovare una vera e propria “Santa Barbara”, composta da una considerevole quantità di armi clandestine, tra le quali quattro pistole semiautomatiche, di cui tre catalogate armi comuni da sparo ed una da guerra con tanto di silenziatore, un fucile a canne mozze, copioso munizionamento, una consistente quantità di polvere da sparo, nonché un efficace e tecnologico set atto alla ricarica delle munizioni.

Nella circostanza venivano tratti in arresto due componenti della famiglia Benavoli, il padre Giuseppe ed il figlio Fortunato, nato a Melito di Porto Salvo il 12.09.1987. Ai due Benavoli, da lì a qualche giorno,si aggiungerà un altro dei figli, Paolo cl. 1989, costituitosi spontaneamente, a carico del quale verranno successivamente raccolti altri elementi tali da ritenerlointraneo al gruppo di Brancaleone. Egli, infatti, era alla ricerca di una propria autonomia operativa ed identità criminale in quel di Brancaleone e trovava linfa vitale grazie ai rapporti con gli africesi e segnatamente con Bartolo Morabito ed i suoi fratelli.

In questo caso, le indagini hanno permesso di raccogliere ulteriori elementi a carico di Nicola ed Alessio Falcomatà, per avere questi ultimi, in concorso tra loro e con Paolo e Giuseppe Benavoli, giudicati separatamente dall’autorità giudiziaria di Locri, detenuto le armi e canne sopra indicate, da considerarsi clandestine in quanto prive in tutto o in parte di matricola identificativa.

Il dato secondo cui i personaggi sottoposti ad indagine avessero la disponibilità di ulteriori armi è emerso chiaramente dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Maurizio Maviglia, allorquando egli ha dichiarato sul punto di essere a conoscenza del fatto che ulteriori armi erano rimaste nella disponibilità dei “Cumps” (derivazione del più classico termine di compari), essendo, peraltro, a lui noto che il gruppetto di Brancaleone aveva la disponibilità di armi.

Il gruppo fra l’altro era molto attivo sui social network e nei propri post si chiamano appunto cumps, per dire “compari”, in tal caso riferito all’appartenenza alle ‘ndrine nel mandamento ionico.

Nelle sue dichiarazioni, Maviglia non si è limitato a parlare di un gruppo delinquenziale stabile ed organizzato, ma ha tirato in ballo addirittura lo stesso Giuseppe Benavoli, padre di Paolo, titolare a suo dire nella scala gerarchica del locale di “ndrangheta”, facente capo a Saverio Mollica, del ruolo di “santista”, analogamente al di lui figlio Paolo, che invece nella stessa consorteria avrebbe la dote di malandrino ed è collegato con Giovanni Morabito, fratello di Bartolo, i quali hanno tanti interessi nel territorio di Brancaleone.

Infatti, vi sono varie conversazioni da cui si arguisce che più persone si sono rivolte a Nicola Falcomatà per ottenere protezione e “giustizia” rispetto a reati patiti e asseritamente posti in essere da esponenti della comunità nomade. In detto contesto, Nicola Falcomatà parlando con un nomade di nome Patrizio indirizzava al suo cospetto gravi e pesanti minacce, manifestandogli di essere determinato a compiere anche gesti di estrema violenza nei confronti degli autori del reato, come spararli e gettarli in un pozzo per farne sparire i cadaveri. In alcuni casi impossibile dal momento che una buona parte dei cittadini di Brancaleone ha dimostrato di preferire di rivolgersi ai “Cumps”, piuttosto che denunciare i fatti.

Dall’ascolto delle conversazioni è stato possibileindividuare specificireati in materia di armi pronte all’uso e ad essere adoperate quando uno degli associati ne abbia bisogno anche temporaneo.

Sempre nella parte di indagine curata dalla Polizia di Stato è stata evidenziata anche una articolata attività nel campo degli stupefacenti, riconducibile sempre ai “Cumps”, ovvero all’articolazione dell’associazione mafiosa di ultima generazione sul territorio di Brancaleone e territori limitrofi.

Le indagini hanno permesso di mettere in risalto i ruoli di soggetti che nel comprensorio brancaleonese ponevano in essere attività di traffico di sostanze stupefacenti che, per una parte, si sono compiute in Sicilia ed a Bagnara Calabra. Le attività investigative, infatti, si sono sviluppate attraverso una intensa e proficua attività tecnica nel corso della quale la Polizia di Stato ha avuto modo di delineare specifici episodi da cui sono emersi riferimenti espliciti allo spaccio di stupefacenti

Gli spacciatori, in specie, concordavano appuntamenti con i loro clienti (e consumatori) adottando terminologia criptica, di dubbia valenza semantica in base a comuni canoni linguistici e logici, ma in realtà pregna di significato alla luce delle emergenze fattuali riscontrate e, soprattutto, dei recuperi di sostanza stupefacente effettuati sul campo.

Gli esiti delle attività di indagine, considerati nel loro complesso, hanno consentito a questa Direzione Distrettuale Antimafia di contestare il reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, con l’individuazione di specifici ruoli per ciascuno dei sodali.

È stata altresì ritenuta sussistente l’aggravante mafiosa in base al fatto che l’attività posta in essere, in prevalenza nei territori di Africo e Brancaleone, vede operativi e attivi promotori molti dei soggetti indiziati di partecipazione all’associazione mafiosa, costituendo il settore del traffico di stupefacenti uno degli ambiti privilegiati del programma criminoso della consorteria mafiosa, per come indicato dal collaboratore Maurizio Maviglia e riscontrato dagli elementi di indagine raccolti nel presente procedimento.

Su richiesta della Dda il Gip di Reggio Calabria ha disposto anche il sequestro preventivo delle seguenti ditte utilizzate per l’esecuzione dei lavori ottenuti mediante il ricorso a condotte estorsive:

– impresa individuale TRIPODI Veneranda, con sede legale a Brancaleone, il cui reale titolare è ALATI Annunziato(marito di TRIPODI Veneranda);

– impresa Teknoimpiantir.l. di CONDOLEO Francesca con sede in Gioia Tauro che, affidataria del servizio di custodia e manutenzione dell’impianto di depurazione del Comune di Brancaleone, aveva assunto TRIPODI Paolino, cognato di Annunziato ALATI (tratto in arresto per estorsione e turbata libertà degli incanti con l’aggravante mafiosa), proprio al fine di inserire un soggetto di riferimento della consorteria all’interno della gestione della manutenzione dell’impianto di depurazione.