La Corte di Assise di Lecce ha pronunciato ieri una sentenza “storica” condannando 13 imputati e riconoscendo il reato di riduzione in schiavitù di lavoratori stranieri commesso anche da imprenditori italiani. Sono stati ritenuti, infatti, colpevoli imprenditori italiani e caporali stranieri, condannati a pene tra 3 e 11 anni di reclusione per associazione per delinquere e riduzione in schiavitù.
L’indagine sugli schiavi delle angurie e dei campi di pomodori in provincia di Lecce nacque nel 2009 su iniziativa dei Carabinieri del ROS e del sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone che approfondirono alcune segnalazioni provenienti da un centro di accoglienza in Puglia dove erano ospitati immigrati africani.
La sentenza ha, quindi, giudiziariamente accertato che gli imprenditori italiani condannati hanno sfruttato e ridotto in schiavitù centinaia di migranti del c.d. “Ghetto di Nardò”, in provincia di Lecce, impegnati nella raccolta di angurie e pomodori nelle campagne salentine, poi finite nei grandi centri commerciali della Lombardia e dell’Emilia Romagna, ottenendo un ingente guadagno attraverso l’utilizzo di manodopera sottopagata.
Per questo la Corte d’Assise del capoluogo pugliese ha condannato 13 persone a pene comprese tra i 3 e gli 11 anni di reclusione. Sono stati ritenuti colpevoli Pantaleo Latino, il referente dell’organizzazione secondo i giudici, Marcello Corvo, Livio Mandolfo e Giovanni Petrelli, tutti noti imprenditori agricoli salentini.
La Corte ha ritenuto che siano tutti responsabili di riduzione in schiavitù e associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento dei lavoratori. Solo per questo capo d’imputazione è stato invece condannato a 3 anni Marcello Corvo, insieme a uno dei caporali. Per gli altri otto stranieri imputati, la pena è di 11 anni di reclusione. La pubblica accusa aveva chiesto la condanna a 14 anni per Latino e a 9 per gli altri imprenditori. Pene tra i 14 e i 17 anni per caporali e capisquadra” tunisini e algerini, oltre a Saber Ben Mahmoud Jelassi detto Sabr, che diede il nome all’indagine condotta nel triennio, che avrebbero materialmente gestito i gruppi di lavoratori stranieri.
Il reato di caporalato, normato dall’articolo 603 ter fu introdotto nel Codice penale nell’estate 2011. Pur contestato dalla Procura di Lecce non è stato valutato dalla Corte d’Assise perché i fatti contestati risalgono agli anni tra il 2009 e il 2011.
L’indagine partì da una iniziativa dei Carabinieri del ROS che intesero far luce sulle condizioni di vita dei braccianti stranieri che occupavano masseria Boncuri, trasformata in una baraccopoli nelle campagne attorno a Nardò dove erano ammassati centinaia di extracomunitari in condizioni di enorme degrado.
“Ora quelli te li sfianco fino a questa sera…”, si ascoltava in una delle intercettazioni disposte dagli investigatori. Secondo quanto ricostruito dalla procura, da un lato c’erano gli imprenditori italiani che pretendevano condizioni di lavoro disumane, dall’altro centinaia di disperati africani ‘reclutati’ al loro arrivo in Sicilia. Di mezzo, un sistema gerarchico oleato, fatto di ‘capi cellula’ e ‘capi squadra’, quasi sempre, anche loro, extracomunitari. L’operazione Sabr portò a 22 arresti in dieci province del Mezzogiorno.
Venne decapitata l’intera filiera dello sfruttamento dei lavoratori stranieri, dai caporali “reclutatori” agli imprenditori, che avevano costituito una efficiente organizzazione suddivisa in ruoli e gerarchie che da anni gestiva la raccolta delle angurie e pomodori a Nardò, il secondo centro più grande della provincia salentina. Una organizzazione criminale transazionale, costituita da italiani, algerini, tunisini e sudanesi, attiva anche a Rosarno e in altre parti del Sud Italia.
La motivazione della sentenza prevista nei prossimi 3 mesi costituirà un punto di riferimento per orientare le indagini sul fenomeno anche per le condanne a carico degli imprenditori italiani.