10 Ottobre 2024

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Serie B, colpaccio del Cosenza a Palermo: 0-1. Gran gol di Canotto nel finale

Colpaccio del Cosenza a Palermo. I Lupi vincono al “Barbera” contro i siciliani 0-1 grazie ad una rete siglata da Canotto nel finale, al 91′. È bastata una staffilata da una ventina di metri con la palla finita sotto l’incrocio. Tre punti preziosissimi.

La partita è stata contrassegnata da un gran possesso palla e numerose azioni da rete per i padroni di casa. Nella ripresa il Cosenza ha colpito un palo e ha avuto diverse occasioni. Fino al primo minuto del recupero, quando Canotto da oltre il limite buca Pigliacelli con un tiro a giro imprendibile.

I rossoblù di Caserta salgono così a quota 8 in classifica mentre i rosanero restato a dieci punti, al terzo posto dietro a Parma e Venezia.

Una rivincita, quella del Cosenza, dopo aver subìto due sconfitte consecutive e un pareggio strappato in zona cesarini al Marulla contro il Sudtirol.

PALERMO: Pigliacelli; Mateju, Lucioni, Ceccaroni, Aurelio (1′ st Lund); Henderson (22′ st Vasic), Stulac (22′ st Gomes), Segre; Di Mariano (31′ st Insigne), Brunori, Di Francesco (36′ st Mancuso).  A disp. : Desplanches, Kanuric, Marconi, Nedelcearu, Coulibaly, Soleri, Graves.  All. : Corini

COSENZA: Micai; Cimino (24′ st Rispoli), Meroni (8′ st Sgarbi), Venturi, D’Orazio; Marras (40′ st Canotto), Zuccon (24′ st Viviani), Calò, Mazzocchi; Tutino (40′ st Voca), Forte.  A disp. : Marson, La Vardera, Fontanarosa, Florenzi, Arioli, Praszelik, Crespi.  All. : Caserta

ARBITRO: Monaldi di Macerata. Assistenti: Passeri di Gubbio, Costanzo di Orvieto. IV ufficiale: Delrio di Reggio Emilia. VAR: Nasca di Bari. AVAR: Paterna di Teramo.

MARCATORI: 46′ st Canotto

SINTESI DELLA PARTITA

E’ morto Giorgio Napolitano, il primo comunista diventato filo “Amerikano”

E’ morto Giorgio Napolitano. Il presidente emerito della Repubblica aveva 98 anni. Napolitano si è spento alle 19.45 di oggi, 22 settembre 2023, presso la clinica Salvator Mundi al Gianicolo, a Roma.

E’ stato nel bene e nel male uno dei protagonisti della vita pubblica e politica italiana dal dopoguerra a oggi. Leader comunista, lo definirono il “migliorista”, sebbene avesse notevoli doti come “equilibrista” del potere. In politica aveva imparato a destreggiarsi meglio di un democristiano.

Da giovane si iscrisse al Guf (Giovani universitari fascisti). Come tanti altri antifascisti di comodo, dopo la guerra, passò dalla parte dei “vincitori”, iscrivendosi al Partito comunista italiano, il movimento più forte dell’occidente allora finanziato dall’Unione sovietica. Tanti anni di carriera che lo portarono a essere tra i primi dirigenti del Pci, poi “pentito”.

Per molti decenni ha ricoperto le più alte cariche politiche e istituzionali, tra cui la presidenza della Repubblica, dove stette per i primi 7 anni e poi riconfermato per l’incapacità di parlamentari corrotti, inetti e senza visione a cercare un’altra figura. In quella occasione, Napolitano, commosso, strigliò pesantemente il Parlamento tacciandoli in sostanza come buoni a nulla.

Stanco per l’età, ne fece altri due di anni per poi, insieme a Renzi, che allora aveva la maggioranza in parlamento, decidere il suo successore: Sergio Mattarella, anche lui fedele servitore delle patrie altrui e agli interessi che con quelli nazionali, italiani, non ci azzeccano nulla.

Secondo i bene informati sarebbe stato Napolitano a far cadere il governo Berlusconi nel 2011 per inaugurare (o far proseguire) la stagione dei governi tecnici graditi alle nomenclature èlitarie, finanziarie e liberal-globaliste: da Monti a Letta a Renzi e via dicendo. Lo chiamarono il “golpe del Quirinale”. In verità i governi tecnici iniziarono nel 1992, dopo il colpo di stato giudiziario con cui il “pool” di Mani pulite, le cosiddette toghe rosse, smantellò i vecchi partiti, tranne il Pci. In quel periodo all’Italia venne sottratta ogni sovranità, da quella monetaria (Maastricht – Euro), a quella politica, istituzionale e industriale; “ceduta” di fatto a entità sovranazionali che da tre decenni decidono le sorti del Belpaese.

Con Renzi incaricato di formare il nuovo governo fu proprio Napolitano a silurare Nicola Gratteri come ministro della Giustizia, indicato dal rottamatore nella lista dei ministri. Il pretesto è che era un “magistrato in servizio”. Tuttavia – va detto – non è la prima volta che i capi dello Stato (contro la Carta) fanno ingerenza nelle formazioni dei governi, imponendo di depennare o rimpiazzare personaggi che potrebbero essere “scomodi” alle nomenclature citate prima. Mattarella, ad esempio, lo fece con Paolo Savona, indicato dal primo governo Conte come ministro dell’Economia ma sgradito a certi poteri oltreconfine.

Europeista e atlantista convinto (fu il primo dirigente comunista inviato negli Stati Uniti), Napolitano dopo anni di militanza nel blocco opposto, prima di congedarsi dalla vita pubblica è stato tra i maggiori referenti dello “stato profondo” italiano, divenendo di fatto filo “amerikano”, come lo bollarono i suoi detrattori interni al Pci.

Fu anche il primo comunista a diventare ministro dell’Interno e presidente della Camera, prima di scalare il Colle. Sul nascere del M5s vi furono i cosiddetti “vaffa-day” con il leader pentastellato Grillo che  in piazza insultò pesantemente il capo dello Stato. Ai primi successi del movimento nelle urne l’allora presidente per minimizzare si spinse a dire che non vi era stato alcun “boom” dei Cinquestelle. I  risultati effettivi lo smentirono clamorosamente.

Nel 2014 durante il mandato quirinalizio è stato teste in un processo che tratta dei rapporti tra mafia e politica. Un primato del quale Giorgio Napolitano avrebbe fatto volentieri a meno.

Una testimonianza, quella dell’allora Capo dello Stato dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo in trasferta al Quirinale, resa nell’ambito del processo sulla cosiddetta Trattativa tra lo Stato e Cosa nostra dopo le stragi del ’92-’93 e nata dalla lettera del consigliere giuridico del presidente, Loris D’Ambrosio, che nel giugno 2012, mentre sui media appaiono le intercettazioni registrate dalla Procura di Palermo tra lui e Nicola Mancino, decide di dare le dimissioni, che vengono respinte.

Un mese dopo D’Ambrosio muore, pare (pare) stroncato da un infarto. Nella lettera il consigliere teme di “essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Parole che per la Procura palermitana meritano di essere approfondite, anche con l’autorevole ausilio del Capo dello Stato.

Nella deposizione del 28 ottobre al Colle, Napolitano le definisce però “ipotesi prive di sostegno oggettivo perché altrimenti il magistrato eccellente Loris D’Ambrosio avrebbe saputo benissimo quale era il suo dovere”. Il rapporto tra Napolitano e le toghe palermitane non è stato privo di contrasti.

Nel luglio 2012 il Colle solleva il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ritenendo che le prerogative del Presidente della Repubblica siano state lese per la decisione presa dalla Procura palermitana a proposito dell’utilizzo di conversazioni telefoniche tra il Capo dello Stato e l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, intercettate sull’utenza di quest’ultimo. Una scelta spiegata con queste parole: è “dovere del Presidente della Repubblica, secondo l’insegnamento di Luigi Einaudi, evitare che si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.

Una vicenda che si trascina per mesi, fino a quando, nell’aprile del 2013, proprio mentre le Camere cercano, invano, di eleggere il successore di Napolitano, la Corte di Cassazione mette la parola fine alla lunga diatriba delle telefonate tra lo stesso Napolitano e Mancino: le intercettazioni dei quattro colloqui, infatti, verranno distrutte.

La Corte d’Assise di Palermo, però, non molla la presa e ribadisce la necessità di sentire come testimone al processo sulla trattativa Stato-mafia il Capo dello Stato. La deposizione, chiesta dai Pm, era già stata ammessa, ma dopo la lettera inviata a fine novembre alla Corte d’Assise da Napolitano, alcuni legali ne avevano chiesto la revoca.

In quella lettera il Capo dello Stato chiedeva di fatto di evitare la deposizione, spiegando di non sapere assolutamente nulla delle vicende che sono d’interesse della Corte. Si arriva così al giorno della deposizione, off limits per la stampa. La trascrizione delle tre ore di faccia a faccia con i giudici sarà diffusa pochi giorni dopo. Tra le 40 persone che varcano la soglia del Quirinale per partecipare all’udienza c’è anche il legale di Totò Riina, Luca Cianferoni.

Per Napolitano, il suo ex consigliere giuridico era “animato da spirito di verità”. Era un D’Ambrosio “insofferente” dopo la pubblicazione delle sue telefonate con Mancino, ma non preannunciò al Capo dello Stato né la lettera né le dimissioni. Quanto alle bombe dei primi anni Novanta, il Presidente dice chiaramente che con gli attentati “la mafia voleva destabilizzare il sistema”.

Nel suo congedo dalle toghe, da Presidente del Csm, Napolitano, nel plenum straordinario del 21 dicembre insiste sulla necessità di lasciarsi definitivamente alle spalle lo “sterile scontro” tra politica e magistratura, ma al tempo stesso sottolinea come non si possano non “segnalare comportamenti impropriamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunti, nel corso degli anni, da alcuni magistrati della pubblica accusa”. Nessun riferimento diretto, naturalmente, allo scontro con i magistrati palermitani, ma è una ferita ancora aperta. Fine di una lunga parentesi “giudiziaria”.

Per tornare a lui, Napolitano nasce a Napoli il 29 giugno del 1925 e si laurea in Giurisprudenza nel dicembre del 1947 presso l’Università del capoluogo campano con una tesi in economia politica. Da studente universitario è impegnato con i giovani antifascisti e a vent’anni si iscrive al Partito comunista.

Nel 1953 viene eletto per la prima volta alla Camera, dove verrà sempre riconfermato, tranne che nella quarta legislatura, nella circoscrizione di Napoli fino al 1996. Nel 1992 ne diverrà presidente, dopo l’elezione a Capo dello Stato di Oscar Luigi Scalfaro, e sarà chiamato a governare l’Assemblea di Montecitorio al culmine di Tangentopoli, sempre geloso custode delle prerogative parlamentari.

Così, di fronte alla richiesta “irrituale agli uffici della Camera, da parte di un ufficiale della Guardia di Finanza, su invito della Procura della Repubblica di Milano, di atti peraltro già pubblicati per obbligo di legge sulla Gazzetta ufficiale”, Napolitano ribadisce “i principi inderogabili cui si deve ispirare una corretta collaborazione tra il Parlamento ed il potere giudiziario”, esprimendo “viva preoccupazione per il verificarsi di casi che toccano questi principi”, ottenendo dal Procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, “formali scuse” dopo avergli manifestato “stupore e disappunto”.

Mentre il suicidio del deputato socialista, Sergio Moroni, il 2 settembre del 1992, “fu il momento umanamente e moralmente più angoscioso che vissi da presidente della Camera”, confesserà alcuni anni dopo Napolitano, destinatario di una lettera da parte dello stesso parlamentare prima di compiere il tragico gesto.

Dopo quel biennio, scocca l’ora del maggioritario e della vittoria del centrodestra e di fronte alle attese e agli interrogativi che suscita l’avvento del governo di Silvio Berlusconi, durante il dibattito sulla fiducia l’ormai ex presidente della Camera disegna il perimetro di quello che dovrebbe essere il terreno di un corretto rapporto tra maggioranza e opposizione.

Un discorso rimasto celebre, che spinge il nuovo premier a lasciare i banchi del Governo per congratularsi con Napolitano. “L’opposizione -dice tra l’altro il futuro Capo dello Stato- non deve impedire che si deliberi in Parlamento, ma ha ragione di esigere misura e correttezza, riconoscimento e rispetto dei propri diritti. L’opposizione non deve impedire che questo governo governi; anzi, ha interesse a che non ci siano alibi per ogni possibile inazione o contraddizione da parte del governo. Quel che sollecitiamo è il linguaggio di un serio confronto istituzionale, di un confronto in quest’Aula sulla complessità ineludibile dei problemi e delle scelte di governo. È anche così che si rispetta sul serio il Parlamento ed il suo ruolo insostituibile nel sistema democratico, in una democrazia dell’alternanza: e non c’è nulla che prema di più a chi vi parla, nulla che dovrebbe premere di più a tutti noi”.

I primi incarichi nel Partito comunista, vedono Napolitano nominato segretario delle federazioni di Napoli e Caserta, mentre dal 1956 diviene membro del Comitato centrale, dove assume l’incarico di responsabile della commissione meridionale. Entrato a far parte della Direzione, nel triennio 1976-79, gli anni della solidarietà nazionale, è responsabile della politica economica del partito, mentre dal 1986 dirige la commissione per la Politica estera e le relazioni internazionali. E quando nel 1989 Achille Occhetto darà vita al ‘governo ombra’ ne sarà nominato ministro degli Esteri.

Allievo di Giorgio Amendola, con Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso è uno degli esponenti di spicco della corrente “migliorista”, quella più moderata del partito, che lo vede sempre impegnato a tenere aperti i canali di dialogo con il Psi, anche negli anni del duro scontro tra Enrico Berlinguer e Bettino Craxi.

Sia per la sua linea politica che per gli incarichi ricoperti, Napolitano cura i rapporti con i Laburisti inglesi, i Socialisti francesi, i Socialdemocratici tedeschi, i Democratici statunitensi. E dopo un iniziale rifiuto nel 1975 del visto da parte del segretario di Stato Henry Kissinger (capo indiscusso del deep state internazionale), tre anni dopo sarà il primo dirigente comunista a recarsi negli Usa, nel pieno della stagione del compromesso storico.

Un viaggio reso possibile grazie anche ai buoni uffici del presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, come ricorderà anni dopo Napolitano in una lettera al leader democristiano: “Non dimentico come ti adoperasti per il buon esito di quella mia prima missione negli Stati Uniti”.

Kissinger invece si farà perdonare con gli interessi 40 anni dopo, quando nel 2015 gli consegnerà di persona l’omonimo premio all’American Academy a Berlino. “Ha salvato la democrazia Italiana nel bel mezzo della crisi economica globale. Per me -dirà l’ex capo della diplomazia americana- ha un grande significato celebrare Napolitano: vero leader democratico, amico delle relazioni atlantiche e difensore della dignità degli esseri umani”.

Tornando alla sua attività all’interno del Pci, Napolitano alla morte di Berlinguer sfiora la segreteria, spinto da un altro esponente “migliorista” come il segretario della Cgil Luciano Lama, ma alla fine prevarrà Alessandro Natta. In quegli anni, esattamente tra il 1981 e il 1986, sarà comunque capogruppo alla Camera.

Dopo aver lasciato l’assemblea di Montecitorio, nel 1996 viene nominato ministro dell’Interno nel primo Governo di Romano Prodi e con il ministro della Solidarietà sociale, Livia Turco, terrà a battesimo la legge sull’immigrazione che tra l’altro istituisce i Centri di permanenza temporanea (Cpt).

Chiusa anche quell’esperienza quando a palazzo Chigi, grazie a giri di palazzo, approda Massimo D’Alema, dal 1999 al 2004 Napolitano è parlamentare europeo, esperienza vissuta anche nel triennio 1989-1992. Come ex presidente della Camera, nel 2003 viene nominato a guida dell’omonima Fondazione, nata per favorire la conoscenza e la divulgazione del patrimonio storico e del ruolo istituzionale dell’Assemblea di Montecitorio.

Il 23 settembre del 2005 il ritorno nel Parlamento italiano, quando Carlo Azeglio Ciampi lo nomina senatore a vita. Sarà una parentesi di pochi mesi, perché il 10 maggio 2006 viene eletto Presidente della Repubblica con 543 voti, quelli della maggioranza di centrosinistra.

‘The quiet power broker’ (Il silenzioso intermediario del potere), lo definirà il ‘New York Times’, con espressione che sintetizza un settennato durante il quale la funzione di garante si concretizza in un’attività in grado di assicurare il costante equilibrio del sistema istituzionale, soprattutto nei momenti più critici e delicati.

Come nell’autunno del 2011, l’anno in cui si celebrano i 150 anni dell’unità d’Italia, quando la crisi del Governo Berlusconi e la preoccupante situazione economica legata all’elevato livello raggiunto dallo spread, portano alla nascita dell’esecutivo tecnico guidato da Mario Monti e sostenuto da un’ampia maggioranza parlamentare. Appunto quello definito “il golpe del Quirinale”.

La stessa che nella primavera del 2013, dopo la bocciatura di Franco Marini e di Romano Prodi ad opera dei franchi tiratori, chiederà a Napolitano di restare al Quirinale alla fine del suo settennato. Accetta e il 20 aprile arriva la sua rielezione con 738 voti. La prima ma non l’ultima volta nella storia repubblicana di una conferma al Quirinale dopo il settennato, visto che la stessa cosa accadrà nel 2022 con Sergio Mattarella, anche in questo caso per superare uno stallo parlamentare che sembrava insuperabile.

Giurando davanti al Parlamento riunito in seduta comune, Napolitano, denuncia l'”imperdonabile nulla di fatto sulle riforme della seconda parte della Costituzione”. Per questo, è il suo appello “non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana”.

Un obiettivo che porta alla formazione del governo tecnico di larghe intese guidato da Enrico Letta e un impegno che non cessa anche quando l’ex Capo dello Stato decide che è arrivato il momento di lasciare il Quirinale, il 14 gennaio 2015.

Nasconde nel bagno di casa oltre tre kg di droga, arrestato

hashish
archivio

Nascondeva nel bagno di casa 35 panetti di hashish per un peso di oltre 3,1 chilogrammi. Così agenti di polizia della Questura di Cosenza ad esito di una perquisizione domiciliare a Rende hanno arrestato un uomo, di cui non sono state rese note le generalità, con l’accusa di detenzione di droga ai fini dello spaccio.

I poliziotti, insieme ai colleghi cinofili di Vibo Valentia ed al cane antidroga “Digos”, hanno fatto accesso presso un condominio popolare nel grosso centro alle porte di Cosenza.

All’interno dello stabile il cane antidroga ha puntato con insistenza un appartamento, avendo “fiutato” la possibile presenza di droga. Una volta intervenuto sul posto il proprietario, gli agenti sono entrati nell’abitazione, utilizzata dall’uomo come deposito, e la conseguente perquisizione ha permesso di rinvenire stupefacente del tipo hashish, suddivisa in 35 panetti, per 3.150 grammi circa, occultata nel bagno.

Espletate le formalità di rito, l’uomo è stato associato alla locale casa circondariale su disposizione della Procura di Cosenza.

‘Ndrangheta, blitz dei CC: decine di arresti, tra cui un sindaco

E’ di 52 misure cautelari – 38 in carcere, sei agli arresti domiciliari e otto obblighi di firma, di cui 5 anche con l’obbligo di dimora -, il bilancio di una vasta operazione antimafia scattata all’alba di oggi in Calabria e in altre regioni.

A condurre il blitz i carabinieri del comando provinciale di Catanzaro coordinati dalla procura antimafia guidata dal procuratore Nicola Gratteri. Sono circa quattrocento i militari impegnati nell’operazione. Il provvedimento è stato emesso dal giudice su richiesta della distrettuale catanzarese.

Gli indagati sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, scambio elettorale politico mafioso, detenzione e porto abusivo di armi, traffico di stupefacenti, estorsione e intestazione fittizia di beni.

L’attività, convenzionalmente denominata “Karpanthos” (dal nome attribuito, in antichità, alla città di Petronà), ha consentito di intervenire nell’area della presila catanzarese, ai confini con la provincia di Crotone, dimostrando l’esistenza e l’attuale operatività di un sodalizio di ‘ndrangheta operante nei territori di Petronà e Cerva, avente stabili ramificazioni nelle province di Lecco, Genova e Torino; nonché, di un’organizzazione dedita a un fiorente spaccio di sostanze stupefacenti, operante sul medesimo territorio, di cui fanno parte alcuni presunti affiliati.

Le investigazioni si sono sviluppate attraverso un’imponente attività di tipo tradizionale, consistente in attività tecniche, interrogatori di persone informate sui fatti, servizi di osservazione e pedinamento, riscontri “sul campo”, con una parallela attività di acquisizione e analisi di dichiarazioni di collaboratori di giustizia, avvalorate dai relativi riscontri e la cui attendibilità è stata già riconosciuta in precedenti sentenze, oltre all’acquisizione di plurime emergenze di altri procedimenti penali.

Nel dettaglio, l’indagine ha permesso di documentare l’esistenza della cosca di ‘ndrangheta “Carpino” di Petronà, coinvolta negli anni Duemila in una sanguinosa faida, operante nella presila catanzarese e con ramificazioni in Liguria e Lombardia, nonché dell’alleato gruppo criminale di Cerva, detto dei Cervesi, con estensioni in Piemonte e Lombardia, entrambi ora ricadenti sotto l’influenza del locale di Mesoraca (Crotone), dediti principalmente alle estorsioni in danno degli imprenditori edili e dei commercianti della presila catanzarese attuate mediante incendi e danneggiamenti, alle rapine a mano armata, al riciclaggio e all’intestazione fittizia di beni, al traffico di cocaina e marijuana con differenti canali di approvvigionamento, riconducibili comunque a soggetti operanti nei territori di Cutro o Mesoraca.

Inoltre, l’attività investigativa ha fatto emergere lo scambio elettorale politico – mafioso e l’influenza del gruppo criminale di Cerva sulla locale amministrazione comunale in occasione delle elezioni del 2017, mediante il procacciamento di voti per alcuni degli indagati – all’epoca candidati ed eletti in quella tornata, poi riconfermati nelle consultazioni del 2022 – in cambio della promessa di denaro e di una percentuale sugli appalti pubblici. Il sindaco di Cerva, Fabrizio Rizzuti è stato arrestato e posto ai domiciliari. In manette anche un assessore e un consigliere comunale di Cerva.

I gip contesta a Rizzuti di essere esponente politico con “un’indole spregiudicata e di totale disinteresse e disinibizione che consente di ritenere, con certezza pressoché assoluta, che l’indagato non esiterà a replicare condotte di segno analogo rispetto a quelle accertate. A fronte di tali elementi, la sussistenza del paventato pericolo di recidiva appare palese ed evidente”. 

“Quanto alla scelta della misura, tuttavia, tenuto conto del ruolo rivestito dal Rizzuti nell’economia complessiva della vicenda, allo stato il paventato pericolo di recidiva può essere adeguatamente fronteggiato mediante gli arresti domiciliari, nella specie idonei ad assicurare che lo stesso venga avulso dalle funzioni che egli ha strumentalizzato in modo criminogeno”.

Nell’indagine è altresì emersa la possibilità della cosca di Petronà di avere a disposizione entrature nella pubblica amministrazione. Nel caso di specie, un dipendente dell’Agenzia delle Entrate aveva messo la propria funzione a disposizione di un affiliato, manifestando la propria disponibilità a ricevere dei falsi, riguardanti proprietà di quest’ultimo, per evitare che costui incorresse in sanzioni o che dovesse pagare l’IMU e ottenendo, in cambio la promessa di favori di varia natura.

Sbarco di migranti a Crotone, scafisti presi e condannati a 4 anni di carcere

I mezzi aeronavali delle Fiamme Gialle della Calabria,, hanno intercettato un veliero dedito al traffico illegale di migranti

Tre trafficanti di esseri umani, un russo e due uzbeki, di cui uno minorenne, sono stati arrestati nei giorni scorsi dalla Guardia di finanza perché ritenuti gli scafisti di un veliero sbarcato a Crotone con 69 migranti. I maggiorenni sono stati processati per direttissima rimediando una condanna patteggiata a oltre 4 anni di carcere ciascuno con l’imputazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

I tre alla vista del Pattugliatore PV6 “Barbarisi”, che li aveva intercettati all’esito dell’avvistamento di un aereo del Gruppo esplorazione aeromarittima di Pratica di Mare a circa una quarantina di miglia da Capo Colonna, avevano gettato i documenti in mare e issato le vele fingendosi diportisti per sfuggire ai controlli dei Finanzieri.

Gli immigrati clandestini erano partiti dalla Turchia e provenienti principalmente da Iran e Afghanistan, nascosti sotto coperta. Gli indagati hanno tentato di eludere la rete di vigilanza aeromarittima della Guardia di finanza.

L’unità alturiera del Corpo, una volta accertata la presenza di ulteriori persone sotto coperta, in collaborazione con una vedetta Costiera del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia ha proceduto all’abbordaggio per condurla nel Porto di Crotone.

Le successive attività di indagine condotte sotto il coordinamento della Procura della Repubblica di Crotone hanno consentito di acquisire ulteriori riscontri investigativi a carico di
tre presunti scafisti, un cittadino russo e due uzbeki di cui uno minorenne sottoposti a misura cautelare. Al termine del processo per direttissima, svoltosi nei confronti dei soli maggiorenni, il giudice ha inflitto poco più di 4 anni di carcere ciascuno, all’esito del patteggiamento.

“Le attività in mare – spiega una nota della Gdf -, condotte in sinergia tra la componente aeronavale alturiera e costiera della Guardia di finanza hanno permesso di infliggere un duro colpo alle compagini criminali che organizzano questi pericolosi viaggi della speranza, assicurando alla giustizia tre presunti scafisti che, se sfuggiti alle maglie dei controlli, avrebbero potuto fare rientro per poi eventualmente intraprendere ancora nuovi viaggi, con il loro carico di esseri umani”.

Droga e armi, blitz in Emilia Romagna: arrestati anche calabresi

Sono diverse le persone di origine calabrese coinvolte nel blitz scattato stamane in Emilia Romagna in una operazione con cui è stata smantellata un banda dedita al traffico di droga, reati in materia di armi ed estorsione. I carabinieri di Castelnovo ne’ Monti (Reggio Emilia), unitamente ai militari del Nucleo investigativo del Comando provinciale e dei colleghi di Parma hanno arrestato ventiquattro persone, nell’ambito di una inchiesta, in codice “Fast car”, coordinata dalla Procura reggiana, procuratore Calogero Gaetano Paci, e guidata da pm Valentina Salvi, sostituto presso la Procura della Repubblica di Reggio Emilia. Sono trentuno gli indagati. Sono accusati a vario titolo e in concorso tra loro di detenzione, vendita, acquisto e cessione di sostanze stupefacenti, acquisto, detenzione illegale e porto in luogo pubblico di armi da guerra e comuni da sparo ed estorsione.

L’indagine, spiega una nota dell’Arma, trae spunto dall’arresto a Reggio Emilia, nel dicembre 2019, di un 42enne italiano trovato in possesso di 30 grammi di cocaina e denaro contante. Dalla minuziosa analisi dei collegamenti e delle relazioni intrattenute dall’arrestato con vari soggetti attestati nella provincia reggiana e dal conseguente assiduo monitoraggio info-investigativo della rete criminosa che si è via via delineata, è emersa la loro varia attività criminale che, seppur focalizzata principalmente sugli stupefacenti, non disdegnava incursioni in altri rilevanti traffici delittuosi.

Le investigazioni hanno permesso agli operanti, in corso d’opera, di procedere all’arresto in flagranza reato o su ordine di cattura di ulteriori 11 persone a riscontro dell’attività d’indagine intrapresa, nonché al sequestro di oltre 150 grammi di cocaina, nonché di un fucile della Seconda Guerra Mondiale con relativo munizionamento.

Il canale di rifornimento era quella campano e lo stupefacente immesso sul mercato reggiano era proveniente prevalentemente dal quartiere Scampia di Napoli. Il giro di affari stimato era di circa 10mila euro al giorno.

Tutti gli arrestati e gli indagati sono per la maggior parte d’area campana e calabrese, ma non mancano anche reggiani, una pugliese, due siciliani, tre albanesi, un algerino e due marocchini.

Le indagini condotte dai Carabinieri del Nucleo operativo e radiomobile della Compagnia di Castelnovo Monti hanno rivelato come nel biennio pre-pandemia gli indagati, grazie a modalità di approvvigionamento e successiva cessione degli stupefacenti ad una cerchia ben delineata di grossisti e acquirenti al dettaglio, erano pienamente dediti al traffico di quantitativi ingenti di stupefacenti, in prevalenza cocaina, a favore di numerosi assuntori della piazza emiliana come peraltro documentato dalle migliaia di cessioni di stupefacenti ricostruite dalle attività investigative, anche di natura tecnica, svolte dai carabinieri.

È stato inoltre appurato che uno degli indagati, mentre era detenuto, aveva la disponibilità di apparecchi elettronici, per la gestione di traffici illeciti. Il nome attribuito all’indagine “Fast Car” deriva dal fatto che il finanziatore degli indagati, soggetto già dedito alla commissione di reati finanziari, avesse fornito, come una delle basi delle attività illecite, un garage a Reggio Emilia pieno di autovetture sportive molto costose, alcune delle quali danneggiate dagli stessi indagati per ritorsioni e vendette interne.

Così come fast cars erano anche quelle utilizzate normalmente dagli indagati per muoversi liberamente mentre compivano i loro illeciti affari (Hammer H2, Audi). Gli indagati, aventi un’età compresa tra i 29 e i 59 anni, sono prevalentemente residenti e gravitanti tra Reggio Emilia e provincia ad eccezione di un residente nel parmense.

Espianto multiorgano eseguito presso l’Ospedale Annunziata di Cosenza

archivio

Eccezionale operazione di espianto multiorgano eseguito presso l’Ospedale Civile dell’Annunziata di Cosenza. E’ quanto si legge in un comunicato dell’Asp.

Nella serata di martedì scorso 19 Settembre, la centrale operativa del 118 di Cosenza, è stata allertata dalla Direzione Sanitaria del presidio ospedaliero Annunziata, per l’attività di prelievo multiorgano in corso su un paziente donatore.

Immediatamente, si è attivata la catena di coordinamento e gestione degli organi prelevati, di concerto con le èquipe sanitarie giunte in aereo in Calabria da Bari, Roma e Palermo. Atterrati in serata e in nottata all’aeroporto di Lamezia Terme, hanno prontamente raggiunto le sale operatorie dell’Ospedale di Cosenza a bordo delle automediche Subaru, acquisite da Areu Lombardia e già operative in Calabria a partire da Agosto scorso per il servizio di Emergenza Urgenza Territoriale.

Al termine dei singoli interventi che hanno riguardato i prelievi di cuore, fegato, reni e polmoni, le èquipe hanno ricevuto gli organi donati di competenza e, sono state riaccompagnate a bordo delle automediche, all’aeroporto di Lamezia Terme per raggiungere tempestivamente le rispettive sedi di destinazione dove erano attese dai pazienti riceventi.

Alle ore 8 del mattino successivo, un’ulteriore auto medica, è partita dall’Annunziata diretta agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria per il trasporto dei reni del donatore.

L’importante missione, notificata dalla Prefettura di Cosenza, si è svolta con il prezioso supporto della Polizia Stradale.

L’eccezionale macchina organizzativa messa in moto, ha visto іІ coinvolgimento di numerosi professionisti е si è potuta svolgere efficacemente, grazie anche а і mezzi
utilizzati е preventivamente acquistati dall’Asp di Cosenza, аІ fine di garantire una flotta di mezzi di soccorso performante а disposizione delle necessita della cittadinanza.

Incidente sulla statale 106 nel catanzarese, 5 feriti

elisoccorso

Cinque persone sono rimaste ferite in un incidente stradale avvenuto sulla statale 106 tra le località Pietragrande e Calalunga, in provincia di Catanzaro.

Nel sinistro sono stati coinvolti tre veicoli che per cause in corso di accertamento si sono scontrate tra loro. Sul posto è intervenuto l’elisoccorso del 118, le Forze dell’ordine e squadre Anas per la gestione della viabilità e per consentire la riapertura del tratto nel più breve tempo possibile. A causa dell’incidente, infatti, la strada statale 106 Jonica è stata chiusa al traffico.

Sorpreso con oltre un kg di eroina in auto, arrestato

Agenti della Squadra mobile della Questura di Crotone, nel corso di mirati servizi predisposti dal Questore, hanno arrestato un ‘corriere’ della droga sessantenne, con precedenti, trovato in possesso di un significativo quantitativo di droga.

Durante controlli sulla statale 106, all’altezza del cavalcavia sud, i poliziotti hanno proceduto al controllo di un’auto, che procedeva a forte velocità in direzione Crotone.

L’atteggiamento del conducente, il quale fin da subito si è mostrato insofferente al controllo, ha indotto gli agenti ad effettuare una perquisizione all’interno dell’auto. Così, sotto il sedile lato passeggero, sono stati scoperti due involucri avvolti con nastro isolante, contenenti eroina per un peso complessivo di circa 1,100 chilogrammi.

La droga rinvenuta è stata posta sotto sequestro, mentre il sessantenne, crotonese, è finito in manette ed è stato associato presso la locale casa circondariale, a disposizione della Procura pitagorica.

Con l’auto finisce in una scarpata, muore un 66enne

archivio

Un uomo di 66 anni, P.F., di Gerocarne, è morto in un incidente avvenuto sulla strada provinciale che collega Vibo Valentia a Soriano, a poca distanza dallo svincolo autostradale.

L’uomo, per molto tempo residente nel Nord Italia ma da qualche anno rientrato nel suo paese, era a bordo della sua auto, una Audi TT, quando, per cause in corso di accertamento, avrebbe perso il controllo del mezzo che è finito in una scarpata.

Sul posto sono intervenuti i medici del 118, l’elisoccorso, che però non hanno potuto far nulla, e i vigili del fuoco. I rilievi sulla dinamica sono svolti dai carabinieri.

Onu, Lavrov: “Le ingerenze degli Stati Uniti hanno portato a instabilità globale”

Sergej Lavrov alle Nazioni Unite

Ecco l’intervento sull’Ucraina del ministro degli esteri russo Sergey Lavrov al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, 20 settembre 2023

“Signor Presidente,

Signor Segretario Generale,

Colleghi,

L’ordine internazionale esistente è stato costruito sulle rovine e sulla colossale tragedia della Seconda Guerra Mondiale. La sua base era la Carta delle Nazioni Unite, la fonte principale del moderno diritto internazionale. In gran parte grazie alle Nazioni Unite, è stato possibile prevenire una nuova guerra mondiale, irta di un disastro nucleare.

Purtroppo, dopo la fine della Guerra Fredda, l’“Occidente collettivo”, guidato dagli Stati Uniti, ha assunto arbitrariamente il rango di arbitro dei destini dell’intera umanità e, sopraffatto da un complesso di esclusivismo, ha ignorato sempre più l’eredità dei padri fondatori dell’ONU.

Oggi, l’Occidente si rivolge selettivamente alle norme e ai principi statutari, caso per caso, esclusivamente in conformità con le sue egoistiche esigenze geopolitiche. Ciò porta inevitabilmente a un deterioramento della stabilità globale, all’esacerbazione di quelle esistenti e all’alimentazione di nuove fonti di tensione. Crescono anche i rischi di conflitti globali. E’ proprio per fermarli, per indirizzare gli eventi in una direzione pacifica, che la Russia ha insistito e insiste affinché tutte le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite siano rispettate e applicate non in modo selettivo, ma nella loro interezza e interconnessione, compresi i principi di uguaglianza sovrana degli Stati, la non ingerenza nei loro affari interni, il rispetto dell’integrità territoriale e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Le azioni degli Stati Uniti e dei loro alleati indicano uno squilibrio sistematico rispetto ai requisiti sanciti dalla Carta.

Dopo il crollo dell’URSS e la formazione al suo posto di Stati indipendenti, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno interferito in modo brutale e aperto negli affari interni dell’Ucraina. Come ha ammesso pubblicamente e persino con orgoglio il vice segretario di Stato americano Victoria Nuland alla fine del 2013, Washington ha speso 5 miliardi di dollari per allevare politici obbedienti all’Occidente a Kiev.

Tutti i fatti della “ingegneria” della crisi ucraina sono noti da tempo, ma si cerca in tutti i modi di metterli a tacere, di “cancellare” l’intera storia precedente al 2014. Pertanto, il tema dell’incontro odierno, proposto dal Presidenza albanese, è molto opportuna e ci consente di ricostruire la catena cronologica degli eventi, e in particolare nel contesto dell’atteggiamento dei principali attori nei confronti dell’attuazione dei principi e degli scopi della Carta delle Nazioni Unite.

Nel 2004-2005 l’Occidente, per portare al potere un candidato filoamericano, ha sancito il primo colpo di Stato a Kiev, costringendo la Corte Costituzionale ucraina a prendere la decisione illegale di indire un terzo turno elettorale non previsto dalla Costituzione del Paese. Un’ingerenza ancora più senza cerimonie negli affari interni è stata evidente durante il secondo Majdan del 2013-2014. Quindi tutta una serie di viaggiatori occidentali ha incoraggiato direttamente i partecipanti alle manifestazioni antigovernative a intraprendere azioni violente. La stessa Victoria Nuland ha discusso con l’ambasciatore americano a Kiev la composizione del futuro governo che formeranno i golpisti. Per prima cosa, ha sottolineato all’Unione Europea il suo reale posto nella politica mondiale dal punto di vista di Washington. Ricordiamo tutti la sua frase oscena di due parole. E’ significativo che l’Unione Europea abbia “inghiottito” tutto ciò.

Nel febbraio 2014, personaggi selezionati dagli americani sono diventati partecipanti chiave nella sanguinosa presa del potere, organizzata, lasciatemelo ricordare, il giorno dopo che era stato raggiunto un accordo sotto la garanzia di Germania, Polonia e Francia tra il presidente legalmente eletto dell’Ucraina Viktor Janukovič e i leader dell’opposizione. Il principio di non ingerenza negli affari interni è stato calpestato più volte.

Subito dopo il colpo di Stato, i golpisti dichiararono che la loro priorità assoluta era limitare i diritti dei cittadini ucraini di lingua russa. E gli abitanti della Crimea e del sud-est del paese, che hanno rifiutato di accettare i risultati della presa del potere incostituzionale, sono stati dichiarati terroristi e contro di loro è stata lanciata un’operazione punitiva. In risposta a ciò, la Crimea e il Donbass hanno tenuto referenda nel pieno rispetto del principio di uguaglianza e autodeterminazione dei popoli, sancito dal paragrafo 2 dell’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite.

Diplomatici e politici occidentali, in relazione all’Ucraina, chiudono un occhio su questa importantissima norma del diritto internazionale nel tentativo di ridurre l’intero contesto e l’essenza di ciò che stava accadendo all’inammissibilità della violazione dell’integrità territoriale. A questo proposito, vorrei ricordare: la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1970 sui principi del diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati in conformità con la Carta delle Nazioni Unite, adottata all’unanimità, stabilisce che il principio del rispetto dell’integrità territoriale si applica a quegli Stati che rispettino nelle loro azioni il principio di uguaglianza e di autodeterminazione dei popoli e, di conseguenza, che abbiano governi che rappresentino tutte le persone che vivono in un dato territorio”. Il fatto che i neonazisti ucraini che presero il potere a Kiev non rappresentassero la popolazione della Crimea e del Donbass non richiede prove. E il sostegno incondizionato da parte delle capitali occidentali alle azioni del regime criminale di Kiev non è altro che una violazione del principio di autodeterminazione a seguito di una grave ingerenza negli affari interni.

L’adozione di leggi razziste che vietano tutto ciò che è russo – istruzione, media, cultura, distruzione di libri e monumenti, messa al bando della Chiesa ortodossa ucraina e sequestro delle sue proprietà, avvenuta in seguito al colpo di Stato, durante il regno di Pëtr Porošenko e poi di Vladimir Zelenskij è diventata una provocatoria violazione del paragrafo 3 dell’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua e religione. Per non parlare del fatto che queste azioni contraddicono direttamente la Costituzione dell’Ucraina, che stabilisce l’obbligo dello Stato di rispettare i diritti dei russi e delle altre minoranze nazionali.

Quando sentiamo gli appelli ad attuare la “formula di pace” e a riportare l’Ucraina ai confini del 1991, sorge la domanda: coloro che lo chiedono hanno familiarità con le dichiarazioni della leadership ucraina su ciò che faranno con gli abitanti dei territori corrispondenti? Vengono ripetutamente minacciati pubblicamente, a livello ufficiale, di sterminio legale o fisico. L’Occidente non solo non frena i suoi protetti a Kiev, ma incoraggia anche con entusiasmo le loro politiche razziste.

Allo stesso modo, i membri dell’UE e della NATO incoraggiano da decenni le azioni di Lettonia ed Estonia volte a violare i diritti di centinaia di migliaia di residenti di lingua russa, chiamati “non cittadini”. Ora stanno discutendo seriamente dell’introduzione della responsabilità penale per l’uso della loro lingua madre. Funzionari di alto rango affermano ufficialmente che la diffusione di informazioni sulla possibilità che gli studenti locali seguano programmi di scuola a distanza russi dovrebbe essere considerata quasi una minaccia alla sicurezza nazionale e richiede l’attenzione delle forze dell’ordine.

Ritorno all’Ucraina. La conclusione degli accordi di Minsk nel febbraio 2015 è stata approvata da una risoluzione speciale del Consiglio di Sicurezza – nel pieno rispetto dell’articolo 36 della Carta, che sostiene “qualsiasi procedura per la risoluzione di una controversia che sia stata accettata dalle parti”. In questo caso – Kiev, Repubbliche Popolari di Doneck e Lugansk. Tuttavia, l’anno scorso, tutti i firmatari degli accordi di Minsk, tranne Vladimir Putin (Angela Merkel, François Hollande e Pëtr Porošenko), hanno ammesso pubblicamente e anche con piacere che, firmando questo documento, non intendevano attuarlo. Cercavano solo di guadagnare tempo per rafforzare il potenziale militare dell’Ucraina e potenziarlo con armi contro la Russia. In tutti questi anni, l’UE e la NATO hanno sostenuto direttamente il sabotaggio degli accordi di Minsk, spingendo il regime di Kiev a risolvere con la forza il “problema Donbass”. Ciò è stato fatto in violazione dell’articolo 25 della Carta, secondo il quale tutti i membri delle Nazioni Unite sono obbligati a “obbedire e attuare le decisioni del Consiglio di Sicurezza”.

Permettetemi di ricordarvi che nel pacchetto con gli accordi di Minsk, i leader di Russia, Germania, Francia e Ucraina hanno firmato una dichiarazione in cui Berlino e Parigi si impegnano a fare molto, compreso il contributo al ripristino del sistema bancario nel Donbass. Ma non hanno mosso un dito. Hanno semplicemente osservato come, contrariamente a tutti questi obblighi, Pëtr Porošenko abbia dichiarato il blocco commerciale, economico e dei trasporti del Donbass. Nella stessa dichiarazione, Berlino e Parigi si sono impegnate a promuovere il rafforzamento della cooperazione trilaterale nel formato UE-Russia-Ucraina per risolvere concretamente le questioni che preoccupano la Russia nel campo del commercio, nonché a promuovere “la creazione di un comune sistema umanitario e spazio economico dall’Atlantico all’Oceano Pacifico”. Questa dichiarazione è stata approvata anche dal Consiglio di Sicurezza ed è stata sottoposta ad attuazione ai sensi del citato articolo 25 della Carta delle Nazioni Unite. Ma questo impegno dei leader di Germania e Francia si è rivelato un “vuoto a perdere”, un’altra violazione dei principi statutari.

Il leggendario ministro degli Affari esteri dell’URSS Aleksej Gromyko ha giustamente osservato più di una volta: “dieci anni di negoziati sono meglio di un giorno di guerra”. In seguito a questo patto abbiamo negoziato per molti anni, cercato la conclusione di accordi nel campo della sicurezza europea, approvato l’Atto istitutivo Russia-NATO, adottato le dichiarazioni OSCE sull’indivisibilità della sicurezza al massimo livello nel 1999 e nel 2010, e dal 2015 abbiamo insistito sull’attuazione incondizionata degli accordi di Minsk scaturiti dai negoziati. Il tutto nel pieno rispetto della Carta delle Nazioni Unite, che impone di “assicurare condizioni di equità e di rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e da altre fonti del diritto internazionale”. I nostri colleghi occidentali hanno calpestato questo principio quando hanno firmato tutti questi documenti, sapendo in anticipo che non li avrebbero rispettati.

A proposito di trattative. Non le rifiutiamo nemmeno adesso. Il presidente russo Vladimir Putin ne ha parlato molte volte, anche di recente. Vorrei ricordare all’illustre Segretario di Stato che il presidente dell’Ucraina Vladimir Zelenskij ha firmato un decreto che vieta i negoziati con il governo di Vladimir Putin. Se gli Stati Uniti sono così interessati a loro, penso che non sarà difficile per loro “dare un comando” affinché il decreto di Vladimir Zelenskij venga annullato.

Oggi nella retorica dei nostri avversari sentiamo solo slogan: “invasione, aggressione, annessione”. Non una parola sulle cause profonde del problema, su come per molti anni abbiano alimentato un regime apertamente nazista che ha apertamente riscritto i risultati della Seconda Guerra Mondiale e la storia del suo stesso popolo. L’Occidente evita un dialogo sostanziale basato sui fatti e sul rispetto di tutti i requisiti della Carta delle Nazioni Unite. A quanto pare, non ha argomenti per un dialogo onesto.

C’è la forte impressione che i rappresentanti occidentali abbiano paura delle discussioni professionali che smascherano la loro demagogia. Mentre pronunciano incantesimi sull’integrità territoriale dell’Ucraina, le ex metropoli coloniali tacciono sulle decisioni dell’ONU sulla necessità che Parigi restituisca la Mayotte “francese” all’Unione delle Isole Comore e che Londra lasci l’arcipelago delle Chagos e inizi negoziati con Buenos Aires sulle Isole Malvinas. Questi “sostenitori” dell’integrità territoriale dell’Ucraina ora fingono di non ricordare il significato degli accordi di Minsk, che prevedevano la riunificazione del Donbass con l’Ucraina con garanzie di rispetto dei diritti umani fondamentali, in particolare il diritto alla propria lingua madre. L’Occidente, che ne ha ostacolato l’attuazione, è direttamente responsabile del crollo dell’Ucraina e dell’incitamento alla guerra civile nel Paese.

Tra gli altri principi della Carta delle Nazioni Unite, il cui rispetto potrebbe prevenire una crisi di sicurezza in Europa e contribuire a concordare misure di rafforzamento della fiducia basate su un equilibrio di interessi, vorrei menzionare l’articolo 2 del capitolo VIII della Carta. Sancisce la necessità di sviluppare la pratica della risoluzione pacifica delle controversie con l’aiuto delle organizzazioni regionali.

In conformità con questo principio, la Russia, insieme ai suoi alleati, ha costantemente sostenuto l’instaurazione di contatti tra l’Organizzazione-Trattato per la Sicurezza Collettiva, la OTSC, e la NATO per facilitare l’attuazione pratica delle summenzionate decisioni dei vertici OSCE del 1999 e del 2010 sull’indivisibilità della sicurezza, garantendo, in particolare, che “a nessuno Stato, gruppo di Stati o organizzazione può essere attribuita la responsabilità primaria del mantenimento della pace e della stabilità nella regione dell’OSCE o considerare qualsiasi parte di questa regione come la propria sfera di influenza”. Tutti sanno che questo è esattamente ciò che la NATO stava facendo: cercare di creare il suo pieno vantaggio in Europa, e ora nella regione Asia-Pacifico. Tuttavia, numerosi appelli dei massimi organi dell’OTSC all’Alleanza del Nord Atlantico sono stati ignorati. La ragione di una posizione così arrogante degli Stati Uniti e dei suoi alleati, come tutti possono vedere oggi, è la riluttanza a condurre qualsiasi tipo di dialogo paritario con chiunque. Se la NATO non avesse respinto le proposte di cooperazione dell’OTSC, forse ciò avrebbe permesso di evitare molti dei processi negativi che hanno portato all’attuale crisi europea a causa del fatto che per decenni si sono rifiutati di ascoltare la Russia o che hanno ingannato.

Oggi, quando, su suggerimento della Presidenza, discutiamo di “multilateralismo efficace”, non dovremmo dimenticare i numerosi fatti del rifiuto genetico dell’Occidente verso qualsiasi forma di cooperazione paritaria. Consideriamo la perla di Josep Borrell secondo cui l’Europa è “un giardino fiorito circondato dalla giungla”. Si tratta di una sindrome puramente neocoloniale che disprezza l’uguaglianza sovrana degli Stati e i compiti di “rafforzare i principi della Carta delle Nazioni Unite attraverso un multilateralismo efficace”, di cui ci occupiamo oggi.

Nel tentativo di impedire la democratizzazione delle relazioni interstatali, gli Stati Uniti e i loro alleati stanno privatizzando sempre più apertamente e senza tante cerimonie i segretariati delle organizzazioni internazionali, facendo passare, aggirando le procedure stabilite, decisioni sulla creazione di meccanismi ad essi subordinati con mandati non consensuali, ma con la rivendicazione del diritto di incolpare chi per qualche motivo a Washington non piace.

A questo proposito, vorrei ricordarvi la necessità di una rigorosa attuazione della Carta delle Nazioni Unite non solo da parte degli Stati membri, ma anche da parte del Segretariato della nostra organizzazione. Ai sensi dell’articolo 100 della Carta, il Segretariato è tenuto ad agire in modo imparziale e non può ricevere istruzioni da alcun governo.

Abbiamo già parlato dell’articolo 2 della Carta. Vorrei attirare l’attenzione sul suo punto chiave 1: “L’Organizzazione si basa sul principio dell’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati suoi Membri”. Sviluppando questo principio, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella Dichiarazione del 24 ottobre 1970, che ho citato, ha confermato “il diritto inalienabile di ogni Stato a scegliere il proprio sistema politico, economico, sociale e culturale senza interferenze da parte di nessuno”. A questo proposito, abbiamo seri interrogativi sulle dichiarazioni del Segretario generale Antonio Guterres del 29 marzo di quest’anno, quando ha detto che “il governo autocratico non garantisce stabilità, è un catalizzatore di caos e conflitti”, ma “le società democratiche forti sono capaci di autocorrezione e auto-miglioramento. Possono stimolare il cambiamento, anche un cambiamento radicale, senza spargimenti di sangue o violenza”. Vengono alla mente involontariamente i “cambiamenti” portati dalle avventure aggressive delle “democrazie forti” in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e molti altri Paesi.

Inoltre, lo stimato Antonio Guterres ha affermato: “Loro (le democrazie) sono centri di ampia cooperazione, radicati nei principi di uguaglianza, partecipazione e solidarietà”. E’ interessante notare che tutti questi discorsi sono stati pronunciati al “vertice per la democrazia” convocato dal presidente Biden al di fuori delle Nazioni Unite, i cui partecipanti sono stati selezionati dall’amministrazione americana sulla base della lealtà – e non tanto verso Washington quanto verso il governo al potere, quello del Partito Democratico negli Stati Uniti. I tentativi di utilizzare tali fora interni per discutere questioni di natura globale contraddicono direttamente il paragrafo 4 dell’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite, che afferma la necessità di “garantire il ruolo dell’Organizzazione come centro di coordinamento delle azioni per il raggiungimento di obiettivi comuni”.

Contrariamente a questo principio, diversi anni fa Francia e Germania hanno proclamato una “alleanza dei multilateralisti”, alla quale hanno invitato solo coloro che sono obbedienti, il che di per sé conferma ancora una volta l’ineluttabilità della mentalità coloniale e l’atteggiamento degli iniziatori rispetto al principio di “multilateralismo efficace”. Allo stesso tempo, veniva propagata una “narrativa” sull’Unione Europea come ideale di quello stesso “multilateralismo”. Ora da Bruxelles arrivano richieste per espandere quanto prima l’adesione all’UE, includendo, in particolare, i Paesi dei Balcani. Ma il pathos principale non riguarda la Serbia, né la Turchia, che conduce da decenni negoziati di adesione senza speranza, ma l’Ucraina. Di recente Josep Borrell, dichiarandosi ideologo dell’integrazione europea, non ha esitato a parlare apertamente nel senso che il regime di Kiev dovrebbe essere accettato nell’Unione Europea il prima possibile. Dicono che se non fosse stato per la guerra ci sarebbero voluti anni, ma questo è possibile e necessario senza alcun criterio. Serbia, Turchia e altri aspetteranno. Ma accettiamo a priori i nazisti nell’UE.

Del resto, nello stesso “vertice per la democrazia” il Segretario Generale ha dichiarato: “La democrazia deriva dalla Carta delle Nazioni Unite. Le prime parole della Carta – “Noi Popoli” – riflettono la fonte fondamentale della legittimità: il consenso di coloro che sono governati”. E’ utile correlare questa tesi con il “track record” del regime di Kiev, che ha lanciato una guerra contro gran parte del suo stesso popolo – contro quei milioni di persone che non hanno acconsentito ad autogovernarsi, contro i neonazisti e i russofobi che hanno preso illegalmente il potere nel Paese e hanno sepolto l’accordo approvato dal Consiglio di Minsk, minando così l’integrità territoriale dell’Ucraina.

Coloro che, contrariamente alla Carta delle Nazioni Unite, dividono l’umanità in “democrazie” e “autocrazie”, farebbero bene a rispondere alla domanda: in quale categoria classificano il regime ucraino? Non mi aspetto una risposta.

Parlando dei principi della Carta, si pone la questione del rapporto tra il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale. Il “collettivo occidentale” promuove in modo aggressivo e da molto tempo il tema dell’“abuso del diritto di veto” ed è riuscito, attraverso pressioni non del tutto corrette sugli altri membri delle Nazioni Unite, a decidere che dopo ogni esercizio di questo diritto, che l’Occidente provoca sempre più deliberatamente, l’argomento corrispondente dovrebbe essere considerato nell’Assemblea Generale. Ciò non rappresenta per noi alcun problema. L’approccio della Russia a tutte le questioni all’ordine del giorno è aperto, non abbiamo nulla da nascondere e non è difficile ribadire questa posizione. Inoltre, il ricorso al veto è uno strumento assolutamente legittimo previsto dalla Carta per impedire l’adozione di decisioni che implicherebbero una spaccatura all’interno dell’Organizzazione. Ma dal momento che la procedura per discutere i casi di veto in seno all’Assemblea Generale è stata approvata, allora perché non pensare alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che non hanno ricevuto il veto, sono state adottate anche molti anni fa, ma non sono mai state attuate, nonostante le disposizioni dell’articolo 25 della Carta. Perché l’Assemblea Generale non dovrebbe considerare le ragioni di questo stato di cose – ad esempio, per quanto riguarda le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sulla Palestina e sull’intera gamma di problemi del Medio Oriente e dell’Africa, sul Piano d’azione congiunto globale, così come la risoluzione 2202, che ha approvato gli accordi di Minsk sull’Ucraina.

Anche il problema associato ai regimi sanzionatori richiede attenzione. E’ già diventata la norma: il Consiglio di Sicurezza, dopo lunghe trattative – nel rigoroso rispetto della Carta – approva le sanzioni contro un determinato Paese, e poi gli Stati Uniti e i loro alleati introducono restrizioni unilaterali “ulteriori” contro lo stesso Stato che non ha ricevuto l’approvazione del Consiglio di Sicurezza e non è stato incluso nella sua risoluzione come parte del “pacchetto” concordato. In questa stessa serie, un altro esempio lampante è la decisione appena presa da Berlino, Parigi e Londra, attraverso le rispettive norme legislative nazionali, di “estendere” le restrizioni contro l’Iran in scadenza a ottobre, che sono soggette a risoluzione legale in conformità con il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Risoluzione 2231. Cioè, i Paesi europei e la Gran Bretagna dichiarano che la validità della decisione del Consiglio di Sicurezza è scaduta, ma a loro questo non interessa, hanno le loro “regole”.

Tutto ciò rende ancora più urgente considerare la questione di garantire che, dopo che il Consiglio avrà adottato una risoluzione sulle sanzioni, nessuno dei membri delle Nazioni Unite abbia il diritto di svalutarla introducendo proprie restrizioni illegittime contro lo stesso Paese.

E’ anche importante che tutti i regimi di sanzioni sotto il Consiglio di Sicurezza siano limitati nel tempo, poiché la loro natura indefinita priva il Consiglio di flessibilità in termini di influenza sulle politiche dei “governi sanzionati”.

Anche il tema dei “limiti umanitari delle sanzioni” richiede attenzione. Sarebbe giusto che d’ora in poi l’introduzione di eventuali progetti di sanzioni al Consiglio di Sicurezza fosse accompagnata dalla valutazione delle loro conseguenze per i cittadini da parte delle agenzie umanitarie delle Nazioni Unite, e non dalle esortazioni demagogiche dei colleghi occidentali secondo cui “la gente comune non soffrirà”.

Cari colleghi,

I fatti parlano di una profonda crisi delle relazioni internazionali e di una mancanza di desiderio e volontà da parte dell’Occidente di superare questa crisi.

Spero che una via d’uscita da questa situazione esista ancora e venga trovata. Per cominciare, tutti devono rendersi conto della responsabilità per il destino della nostra Organizzazione e del mondo – in un contesto storico, e non dal punto di vista di allineamenti elettorali opportunistici e momentanei nelle prossime elezioni nazionali di un particolare Stato membro. Permettetemi di ricordarvelo ancora una volta: quasi 80 anni fa, firmando la Carta delle Nazioni Unite, i leader mondiali hanno concordato di rispettare l’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati: grandi e piccoli, ricchi e poveri, monarchie e repubbliche. In altre parole, già allora l’umanità riconosceva la necessità di un ordine mondiale equo e policentrico come garanzia della sostenibilità e della sicurezza del proprio sviluppo.

Pertanto, oggi non si tratta di sottomettersi a una sorta di “ordine mondiale basato su regole”, ma di adempiere da parte di tutti agli obblighi assunti al momento della firma e della ratifica della Carta nella loro interezza e interconnessione”.

Traduzione testo e video a cura di Mark Bernardini

Voto di scambio, assolto il sindaco di Cassano Papasso

Il sindaco di Cassano Gianni Papasso

Assolto perché il fatto non sussiste. Il giudice monocratico del tribunale di Castrovillari, dottor Orvieto Matonti, ha assolto Giovanni Papasso, sindaco di Cassano Allo Ionio, dal reato di voto di scambio. La vicenda si riferisce a fatti avvenuti nella campagna elettorale del 2016 e a lui contestati. Lo fa sapere lo stesso sindaco di Cassano in una nota,

Dopo un lunghissimo percorso dibattimentale, in cui è emersa chiaramente la correttezza del comportamento del sindaco Papasso e che ha anche indotto il pubblico ministero a chiedere l’assoluzione «perché il fatto non sussiste».

«Ci sono voluti oltre 7 anni – ha commentato a caldo il sindaco Papasso – per avere giustizia rispetto ad un reato che non ho mai commesso e finalmente, ancora una volta sono stato assolto, ancora una volta giustizia è fatta! Ho sempre avuto fiducia nella magistratura e nei giudici e mi sono sempre difeso nel processo come un corretto cittadino deve sempre fare. Sottolineo che di questo processo si parlò molto nella campagna elettorale del 2019, quando venne utilizzato dai miei detrattori come argomento per non farmi votare perché sicuri, a loro dire, che sarei stato condannato ma anche oggi sono stati sconfitti».

Papasso ha voluto ringraziare, con l’affetto di sempre, l’avvocato Franz Caruso che anche in questa circostanza lo ha assistito con brillante e grandissima professionalità.

«Dedico questa ennesima assoluzione – ha detto in conclusione Papasso – ai cittadini di Cassano che hanno sempre creduto in me e non si sono mai lasciati fuorviare da notizie e da indagini che non sempre sono state obiettive e serene e che in alcuni casi hanno assunto il significato di una vera e voluta persecuzione. Dopo questo ennesimo positivo risultato, continuerò nel mio lavoro di sindaco, senza distrazioni e con l’amore e la passione di sempre».

‘Ndrangheta, confiscato patrimonio di 18 milioni a imprenditore vicino ai clan

Beni per un valore di circa 18 milioni di euro sono stati confiscati ad un imprenditore di Reggio Calabria, Ninello Mordà, in applicazione di un provvedimento emesso dalla sezione misure prevenzione del tribunale reggino. L’operazione è stata condotta dalla Guardia di finanza, personale della Direzione investigativa antimafia, con il coordinamento della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo diretta dal procuratore Giovanni Melillo e della Direzione distrettuale antimafia, diretta dal Giovanni Bombardieri.

Gli inquirenti ritengono che Mordà sia “espressione della ‘ndrangheta” (presunta) nel settore della distribuzione commerciale.

La figura dell’imprenditore era emersa nell’ambito dell’operazione denominata “Martingala”, condotta dalla Dia e dal Nucleo di polizia economico finanziaria di Reggio Calabria, sotto il coordinamento della locale dda, conclusasi nel mese di febbraio 2018, nel cui ambito l’uomo è stato rinviato a giudizio per diverse ipotesi di reato, tra cui associazione di stampo mafioso, trasferimento fraudolento di valori, estorsione, bancarotta, usura e reimpiego di denaro di provenienza illecita in attività economiche e finanziarie, fattispecie in diversi casi aggravate dall’aver agevolato gli interessi della ‘ndrangheta.

Le indagini avrebbero permesso di delineare la figura di un imprenditore al servizio della ‘ndrangheta nonché presunto punto di riferimento sistemico per gli interessi economici e finanziari dell’organizzazione, con la quale avrebbe operato in stretti rapporti.

Ninello Mordà – spiegano gli investigatori – avrebbe gestito, di fatto, plurime imprese impegnate nel settore della distribuzione commerciale di svariate tipologie merceologiche, formalmente intestate – al fine di evitare l’applicazione di misure giudiziarie a carattere patrimoniale – a compiacenti fiduciari, nelle quali sarebbero confluiti notevoli volumi finanziari di origine illecita.

Nel luglio 2022 l’imprenditore è stato altresì attinto da ordinanza di custodia cautelare nell’ambito dell’operazione “Planning”, anch’essa originata da indagini svolte dalla Dia e dalle Fiamme gialle in quanto indiziato dei reati di intestazione fittizia e reimpiego di capitali illeciti.

Alla luce delle risultanze investigative il tribunale ha disposto l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca dell’intero compendio aziendale di 5 imprese operanti nei settori del commercio di elettrodomestici ed immobiliare, sette immobili, 2 autovetture, 27 orologi di lusso, preziosi, 147.000 euro in contanti nonché disponibilità finanziarie, per un valore complessivo stimato in oltre 18 milioni di euro.

L’imprenditore è stato sottoposto alla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, per tre anni, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza o dimora abituale.

Istruzione, il ministro Valditara a San Luca: “Lo Stato è presente”

“Lo Stato è presente, è vicino ai cittadini e non li abbandonerà”. Lo ha detto il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara a San Luca, nella Locride.

Valditara è arrivato nel comune pre-aspromontano, prima tappa di un tour che lo ha portato poi a Platì e infine a Bovalino, dove è stato accolto dal sindaco Bruno Bartolo, che assieme ad alcuni altri primi cittadini della zona aveva invitato Valditara, in una delle zone periferiche del Paese dove più pressanti sono i temi della dispersione scolastica e della povertà educativa. Presenti il presidente della Regione Roberto Occhiuto, la vice Giusi Princi che ha la delega all’istruzione e la direttrice dell’ufficio scolastico regionale Antonella Iunti.

“Investire nell’istruzione e nella scuola – ha aggiunto Valditara – per dare un futuro ai giovani è il nostro obiettivo. Oggi è un giorno importante, un giorno in cui noi siamo venuti qui per ascoltare le esigenze e per dare risposte concrete. Quello di oggi è un passo importante di Agenda Sud. Siamo stati a Caivano con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e adesso siamo qua. Agenda Sud significa credere nello sviluppo, nella crescita e nelle opportunità per tanti giovani del Mezzogiorno ma soprattutto significa riunire l’Italia, un’Italia che oggi è spaccata che non ha le stesse opportunità formative”.

“Qui ci sono tutte le potenzialità – ha sostenuto ancora Valditara che ha annunciato investimenti per circa 5 milioni di euro – per far sì che con un investimento nella scuola qui possa diventare un esempio. Dobbiamo lavorare perché la legalità inizia dalla scuola, dalla formazione”.

“San Luca è conosciuto – ha ricordato Occhiuto rivolgendosi agli studenti – perché la ‘ndrangheta in questa zona della Calabria ha ucciso il futuro, ma solo lo Stato può assicurare i diritti. Noi, per parte nostra, siamo impegnati a creare le condizioni affinché lungo il vostro percorso voi possiate rimanere e realizzarvi in Calabria”.

Per il sindaco Bartolo “la normalizzazione del paese deve passare necessariamente attraverso questa istituzione. Due sono i pilastri e gli antidoti – ha sottolineato – contro tutte le mafie: il lavoro e la scuola”.

Lutto nel mondo dell’informazione, è morto il giornalista Pietro Bellantoni

Il giornalista Pietro Bellantoni non ce l’ha fatta. È morto a soli 42 anni strappato all’affetto della moglie Ketty Tramontana, sposata nel giugno 2018, della loro bambina e di tutti i parenti, i colleghi e gli amici che di lui hanno sempre apprezzato non solo le eccezionali doti di cronista, ma soprattutto la straordinaria bontà e sensibilità dell’uomo.

Nel marzo scorso, assieme ai colleghi Michele Carlino e Mario Meliadò, era stato assunto nella redazione della Tgr Rai della Calabria dopo aver vinto l’ultimo concorso pubblico. Una meritata gioia che, quasi subito, si è trasformata in tragedia. Una forte emicrania che non passava, il consiglio della moglie Ketty di recarsi in ospedale per un controllo, la scoperta della malattia, il baratro, le cure, la speranza di essere uscito dal tunnel e oggi il tragico epilogo.

Nato a Scilla il 23 settembre 1980 e residente a Reggio Calabria, Pietro Rocco Bellantoni era laureato in Filosofia, aveva conseguito un master in Giornalismo all’Università Iulm di Milano ed era giornalista professionista dal 24 novembre 2009.

Ha avuto esperienze professionali nelle redazioni di Torino dei quotidiani La Stampa e la Repubblica e, per la tv, a Studio Aperto di Mediaset. Redattore per circa 10 anni del Corriere della Calabria, di cui è stato caporedattore, ha lavorato per LaCtv ed è stato corrispondente dalla Calabria della trasmissione Tagadà di La7. È stato anche direttore responsabile de Ilreggino.it e coordinatore dell’Ufficio Stampa della Giunta regionale della Calabria.

I colleghi di Rai Calabria, nell’esprimere cordoglio alla famiglia, ricordano che «Pietro era stato colpito pochi mesi dopo l’ingresso in Rai da una brutta malattia che, però, sembrava aver superato, facendo sperare in un pronto rientro in redazione con cui da professionista qual era, ha continuato a collaborare anche nei momenti più difficili, prima dell’aggravarsi del male che lo ha portato via. Nella Rai calabrese si era fatto subito apprezzare da colleghi e superiori per la professionalità e i modi gentili e soprattutto per la competenza, in particolare sui temi politici regionali nazionali che sono stati sempre al centro della sua attività giornalistica. Una carriera e una vita troppo brevi ma ricche e intense di soddisfazioni e riconoscimenti, professionali e familiari culminati con l’arrivo di una bambina pochi anni fa».

Profondo cordoglio viene espresso dal segretario generale della Figec Cisal, Carlo Parisi, il quale ricorda che «con Pietro non perdiamo solo l’eccezionale cronista che ha firmato importanti pagine di verità e riscatto per una regione difficile come Calabria, ma soprattutto un uomo vero che nella sua, purtroppo breve esistenza, si è sempre fatto apprezzare per le sue straordinarie doti. Solare, buono, sensibile, gentile, incarnava la speranza del riscatto di una terra che, purtroppo, continua a perdere i suoi figli migliori. Un forte abbraccio a Ketty, alla piccola Giulia, alla famiglia e ai colleghi della Tgr Rai Calabria». I funerali saranno celebrati a Scilla domani, giovedì 21 settembre, alle ore 15.30, nella Chiesa di San Rocco.

Cordoglio per la prematura scomparsa di Pietro Bellantoni viene espresso alla famiglia, a parenti, amici e colleghi anche da Secondo Piano News.

Nasconde un’arma clandestina nel caminetto, arrestato

I carabinieri della Stazione di Lamezia Terme Sambiase, hanno arrestato un lametino 36enne, V.M., poiché sorpreso con un’arma clandestina col relativo munizionamento.

I carabinieri hanno rinvenuto una pistola cal. 9×21, con il caricatore inserito contenente 15 cartucce, avvolta tra vari asciugamani, occultata all’interno di un’intercapedine presente nel caminetto dell’abitazione dell’uomo.

Dopo una prima ispezione della pistola i militari hanno constatato che la matricola era stata punzonata e che i rispettivi meccanismi di funzionamento, nonché i congegni di mira dell’arma, risultavano funzionanti e idonei all’offesa.

Il giudice del Tribunale di Lamezia Terme ha disposto nei confronti del trentaseienne la misura cautelare degli arresti domiciliari.

Da Prefettura Commissione di accesso antimafia al Comune di Stefanaconi

Il prefetto di Vibo Valentia Paolo Giovanni Grieco ha disposto l’invio della commissione di accesso antimafia nel Comune di Stefanaconi, in provincia di Vibo Valentia. A dare notizia della decisione della Prefettura è la pagina social del Comune del vibonese.

L’ente è attualmente guidato dal sindaco Salvatore Solano, al suo secondo mandato e che fino allo scorso gennaio ha ricoperto la carica di presidente della Provincia di Vibo Valentia.

Solano è stato indagato nell’inchiesta “Petrolmafie” del 2021 con l’accusa di corruzione, estorsione elettorale e turbata libertà degli incanti con l’aggravante mafiosa. Inoltre il sindaco è cugino di Giuseppe e Antonio D’Amico, ritenuti esponenti della criminalità organizzata di Piscopio.

“Dalla pagina pubblica dell’ente comunale – è scritto nel post del Comune – sentiamo il dovere di informarvi che in data odierna è stata notificata la nomina della commissione di accesso agli atti amministrativi. La Commissione dovrà acquisire gli atti prodotti dall’insediamento dell’attuale amministrazione comunale ad oggi. Nel rispetto delle prerogative di legge, tale decisione rientra nei poteri che lo Stato esercita attraverso i propri organismi per accertare se l’amministrazione pubblica abbia agito con correttezza, linearità e trasparenza, nell’esercizio delle proprie funzioni. Per come richiesto in atti, nel più breve tempo possibile, verranno forniti i documenti richiesti, da cui si potrà evincere in modo eloquente come ogni atto sia stato adottato nell’esclusivo interesse della comunità amministrata”.

“Riponiamo piena fiducia nelle istituzioni dello Stato – è scritto ancora – che hanno il compito di accertare la verità secondo giustizia e legalità, a cui, noi amministratori, non ci siamo mai sottratti e mai ci sottrarremo. Siamo nati come squadra e come squadra continueremo a stare uniti, certi che l’onestà e la dirittura morale cristallizzata nel nostro agire amministrativo possa continuare ad alimentare il sogno e l’impegno per la comunità di Stefanaconi”.

Soverato, vende cannabis sul bancone del bar: arrestato

Nel corso dei servizi di controllo del territorio, i Carabinieri della Stazione di Soverato hanno scoperto la pubblica vendita di infiorescenze di cannabis in un bar annesso ad un’area di servizio carburanti.

I militari hanno sequestrato circa 48 grammi di prodotto, sfuso, contenuto in un barattolo di vetro e posizionato ben in vista sul bancone della cassa. C’era anche esposta un’etichetta riportante la dicitura “Maria € 5 al grammo”. Il gestore del pubblico esercizio, un 46enne della zona, è stato così arrestato in flagranza per il reato previsto dal Testo Unico sulle droghe.

Nel corso della perquisizione è stato rinvenuto anche un bilancino elettronico di precisione e materiale per il confezionamento; da un’ulteriore perquisizione domiciliare a casa dell’uomo sono stati trovati altri 3 grammi di “marijuana”. Il 46enne è stato arrestato e su disposizione della Procura della Repubblica di Catanzaro sottoposto agli arresti domiciliari.

Cosenza, intesa tra Finanza e Provincia a tutela delle risorse del Pnrr

Da sinistra Rosaria Succurro e Giuseppe Dell’Anna

È stato siglato questa mattina il protocollo d’intesa tra la Provincia di Cosenza e la Guardia di Finanza, accordo che ha l’obiettivo di potenziare il presidio assicurato dalle Fiamme gialle, impegnate a tutelare la corretta attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), e migliorare l’efficacia complessiva delle misure volte a prevenire, ricercare e contrastare le violazioni in danno degli interessi economico-finanziari dell’Unione europea, dello Stato, delle regioni e degli enti locali, connessi alle misure di sostegno e finanziamento del piano di ripresa.

La firma del documento, da parte del presidente Rosaria Succurro e del comandante provinciale della Guardia di finanza di Cosenza, colonnello Giuseppe Dell’Anna, pone in rilievo un raccordo informativo prevedendo, nello specifico, che la Provincia di Cosenza comunichi alla Guardia di Finanza informazioni e notizie circostanziate, ritenute rilevanti per la repressione di irregolarità, frodi e abusi di natura economico-finanziaria, di cui sia venuta a conoscenza, avendo cura di segnalare, altresì, elementi su interventi, realizzatori o esecutori che presentino particolari indici di rischio.

Si tratta, dunque, di un’attività di collaborazione tra la Provincia e la Finanza che ha lo scopo di rafforzare le azioni a tutela della legalità delle attività amministrative finalizzate alla destinazione e all’impiego delle risorse suddette.

“L’accordo con la Guardia di Finanza rappresenta un contributo prezioso per il contrasto ad ogni forma di corruzione e di malversazione di denaro pubblico, in un momento in cui la Provincia di Cosenza è chiamata a gestire ingenti finanziamenti ottenuti grazie a progetti qualificati per la trasformazione del territorio. Con il Pnrr gli enti locali attraversano una fase delicata, in cui è importante garantire il corretto impiego delle risorse pubbliche – che potrebbero fare gola a soggetti e associazioni criminali – potenziando il sistema dei controlli. Il protocollo sottoscritto va dunque a inserirsi in un concreto ed effettivo presidio di legalità che da sempre promuoviamo”.

“Ringrazio il Colonnello Dell’Anna – ha concluso il Presidente della Provincia – per la disponibilità dimostrata e per essersi reso disponibile a condividere con noi l’impegno a prevenire i fenomeni di corruzione, in un contesto delicato e oltremodo rilevante per lo sviluppo del territorio quale è quello offerto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”.

Il Colonnello Dell’Anna, nel ringraziare il presidente della Provincia di Cosenza, ha ribadito come l’intesa, frutto di un “idem sentire de re publica”, agevolerà l’ordinaria attività della Guardia di Finanza sul controllo della gestione delle risorse pubbliche e consentirà di valorizzare il coordinamento istituzionale in un’ottica di prevenzione e contrasto delle condotte lesive degli interessi finanziari pubblici.

Infine, l’ufficiale ha illustrato come la corretta attuazione del Pnrr garantisce che le ingenti risorse consentano di raggiungere gli obiettivi di rilancio e di rafforzamento strutturale dell’economia locale e nazionale.

Il protocollo d’intesa resterà in vigore fino al completamento del Pnrr e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2026.

NYT: “Il missile che ha fatto strage al mercato era ucraino, non russo”

Il missile caduto lo scorso 6 settembre sul mercato Kostiantynivka in cui sono morte una quindicina di civili e altri trenta sono rimasti gravemente feriti era ucraino, non russo come era stato detto nell’immediatezza sia dal presidente Zelensky e a ruota dai media occidentali. A svelarlo è il New York Times che ha raccolto delle prove sulla strage.

“L’attacco missilistico del 6 settembre su Kostiantynivka, nell’Ucraina orientale, è stato uno dei più mortali avvenuti nel paese negli ultimi mesi, uccidendo almeno 15 civili e ferendone più di altri 30 . I frammenti metallici dell’arma ha colpito un mercato, perforando finestre e muri e ferendo gravemente alcune vittime”, si legge sul NYT.

“Meno di due ore dopo, il presidente Volodymyr Zelensky ha accusato i “terroristi” russi dell’attacco, e molti media hanno seguito la narrazione del presidente ucraino che disse: “Russia malvagia e disumana”. Ma le prove raccolte e analizzate dal New York Times, inclusi frammenti di missili, immagini satellitari, resoconti di testimoni e post sui social media, suggeriscono fortemente che l’attacco sia stato il risultato di un missile di difesa aerea ucraino ‘errante’, lanciato da un sistema di lancio Buk”.

Sembra che l’attacco sia stato un tragico incidente, senza comunque escludere che potrebbe trattarsi di un criminale attacco di falsa bandiera per attribuire la responsabilità al nemico russo, come del resto è già avvenuto col missile caduto in Polonia che ha fatto due vittime. Attacco che in prima battuta era stato attribuito a Mosca, poi si scoprì che il razzo era invece ucraino.

“Gli esperti di difesa aerea – citati dal NYT – affermano che missili come quello lanciato sul mercato possono andare fuori rotta per una serie di ragioni, tra cui un malfunzionamento elettronico o una pinna di guida danneggiata o tranciata al momento del lancio”.

“Il probabile fallimento del missile è avvenuto nel mezzo delle battaglie avanti e indietro comuni nell’area circostante. Le forze russe hanno bombardato Kostiantynivka la notte prima. Il fuoco dell’artiglieria ucraina proveniente dalla città è stato segnalato pochi minuti prima dell’attacco al mercato”.

“Un portavoce delle forze armate ucraine ha detto che il servizio di sicurezza del paese sta indagando sull’incidente e, secondo la legge nazionale, non può commentare ulteriormente”. Inizialmente le autorità ucraine – si legge nel reportage – hanno cercato di impedire ai giornalisti del Times di accedere ai detriti missilistici e all’area di impatto subito dopo l’attacco. Ma alla fine i giornalisti sono riusciti ad arrivare sulla scena, a intervistare i testimoni e a raccogliere alcuni resti del missile utilizzato.

L’attacco nel video pubblicato dal NYT
“Le riprese delle telecamere di sicurezza mostrano che il missile è volato su Kostiantynivka dalla direzione del territorio controllato dall’Ucraina, non da dietro le linee russe”, scrivono i cronisti.

“Quando si sente il suono del missile in avvicinamento, almeno quattro persone sembrano girare contemporaneamente la testa verso il suono in arrivo. Sono rivolti verso la telecamera, in direzione del territorio controllato dall’Ucraina. Qualche istante prima che colpisca, il riflesso del missile è visibile mentre passa sopra due auto parcheggiate, mostrando che viaggia da nord-ovest”.

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