5 Ottobre 2024

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Così la cricca del Mose dirottava i fondi del Sud

CipeSara Monaci per il Sole 24 Ore

Per Venezia ci fu un anno “critico” nella ridistribuzione dei fondi del Fas, il Fondo per le aree sottosviluppate. Era il 2010 e il governo aveva stabilito che l’85% dei finanziamenti fosse destinato al Sud. Per questo i vertici del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), che per la costruzione del Mose intascava risorse pubbliche da cui “ritagliarsi” il 50% di fondi neri, fecero pressioni sul governo perché la percentuale venisse ripartita diversamente.

Così cominciano i contata con politici e funzionari per portare al Nord ciò che era destinato al Sud. Spiegano i pm Stefano Buccini, Stefano Ancilotto e Paola Tonini che «tale situazione, che avrebbe potuto provocare la paralisi dell’attività del Consorzio e delle imprese ad esso consorziate, era fonte di profonda preoccupazione per Giovanni Mazzacurati, manifestata anche ai funzionari del ministero dell’Economia e delle Infrastrutture, con i quali vorticosamente si interfacciava». Mazzacurati trova un interlocutore, Lorenzo Quinzi, direttore del Gabinetto del Mef.

Quest’ultimo spiega che «…le soluzioni che sono un po’ drastiche dovrebbero essere o che loro spostano i 400 milioni sulle risorse della legge obiettivo, che ovviamente non hanno paletti dell’85 e del 15%…».I gravi ritardi prospettati inducono il manager a rivolgersi a Gianni Letta, all’epoca dei fatti sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri. «L’agenda di Mazzacurati conferma che il 29 aprile 2010 alle ore 15:45 vi è stato l’incontro con Letta… in molte altre conversazioni intercettate Letta viene indicato con il termine “il dottore”».

Letta però non da garanzie (non è indagato e la procura a oggi non ha in programma di ascoltarlo come persona informata dei fatti). Si avviano poi i contatti con Roberto Meneguzzo, interlocutore diretto di Marco Milanese, uomo di fiducia dell’alierà ministro dell’Economia Giulio Tremonti (non indagato). Poi si passa al ministero delle Infrastrutture, all’epoca guidato da Altero Matteoli (indagato in un’altra inchiesta, sulle bonifiche di Porto Marghera). Mazzacurati riferisce alla propria segreteria l’avvenuto incontro con Milanese, sottolineando «l’efficacia dell’attivazione di quest’ultimo con i funzionari del ministero delle Infrastnitture». I fondi si sbloccano dopo poco. Si parla di 400 milioni per il Cvn.

Per quanto riguarda i finanziamenti illeciti, uno dei filoni dell’inchiesta, due giorni fa è stato ascoltato dai pm per 4 ore il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, in custodia cautelare ai domiciliari per aver intascato 500mila euro dal Cvn perla campagna elettorale. Il primo cittadino avrebbe negato le responsabilità, tirando in ballo altri politici che lo avrebbero “tradito” facendo il suo nome, e a cui potrebbero essere andati i fondi Intanto dagli interrogatori di Piergiorgio Baita, ex direttore dell’azienda Mantovani, spunta il nome di Flavio Tosi, sindaco di Verona. «Ho dato a Del Borgo (uno dei 35 arrestati, ndr) il rimborso di un versamento fatto a favore del sindaco Tosi», dice l’ex manager.

Si parla di 15mila euro e si sostiene che si trattasse di un finanziamento regolare. «Sono totalmente tranquillo», ha commentato Tosi. Tra i nomi noti compare anche quello dell’exministro Renato Brunetta. Secondo Baita, «per le comunali 2010 a Venezia gli sarebbero stati dati 50mila euro dalla Mantovani. Il Consorzio – spiega Baita in un interrogatorio – sosteneva Orsoni. Brunetta era molto risentito. Credo abbiamo accontentato anche lui, in misura minore.

L’abbiamo fatto come Adria Infrastrutture, saranno stati 50mila euro…e non in contanti». La reazione Brunetta: «A sostegno della mia campagna elettorale del 2010 è stato deliberato un contributo, non dal Consorzio Venezia Nuova, regolarmente contabilizzato e dichiarato secondo la legge, e nient’altro». Il Comune di Venezia e la Regione Veneto si costituiranno parte civile nel futuro processo.

Usura, indagati a Trani Tarantola, Saccomanni, Profumo, Abete, Mussari, il figlio della Cancellieri, Peluso e altre 56 persone

Tarantola Saccomanni
Ai vertici di Bankitalia. Da sinistra Tarantola e Saccomanni

Non erano grandi cifre, ma le leggi sui reati di usura non pongono limiti né accordi privati. Se è usura è usura. Vale per il crimine organizzato quanto, a maggior ragione, per i grandi istituti di credito: ossia, le banche che per ordinamento dovrebbero rispettare regole e principi di legalità. Ma putroppo sono sempre più i casi di banche che applicano tassi usurari a danno di ignari imprenditori dietro clausole astruse e “invisibili”.

Ma c’è sempre qualche procura “attenta” a vigilare. E’ il caso della procura di Trani (la stessa che mise sotto accusa le agenzie di Rating) che ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini per il gravissimo reato di usura bancaria aggravata a 62 persone tra cui alla presidente Rai, Anna Maria Tarantola (indagata in qualità di ex capo della Vigilanza di Bankitalia) e l’ex ministro dell’Economia del governo Letta, Fabrizio Saccomanni (indagato come ex dg dell’Istituto via Nazionale).

Piergiorgio Peluso
Figlio “d’arte”. Piergiorgio Peluso

Negli atti dell’inchiesta, che ha scosso il mondo bancario nazionale, compaiono anche i nomi dei vertici di Bnl, Unicredit, Mps e di Banca popolare di Bari per i quali il pm inquirente, Michele Ruggiero, sembra essere intenzionato a chiedere il rinvio a giudizio.

La lunga lista degli indagati comprende il presidente del Cda di Bnl, Luigi Abete, e l’Ad Fabio Gallia. Per Unicredit l’ex Ad Alessandro Profumo, ora presidente del Cda di Mps, e l’attuale Ad Federico Ghizzoni. Per Mps l’ex presidente Giuseppe Mussari e il suo vice Francesco Gaetano Caltagirone. Sempre per Bnl sono indagati l’ex vicepresidente Piero Sergio Erede e il presidente del collegio sindacale Pier Paolo Piccinelli. Per Unicredit l’ex presidente del Cda, Dieter Rampl, e il dg Roberto Nicastro.

Si procede anche per i vertici di Unicredit Banca di Roma che coinvolge Paolo Savona, ex presidente del Cda. Per Unicredit Banca d’Impresa l’ex presidente Mario Fertonani, l’attuale vicepresidente vicario di Unicredit spa, Candido Fois e Piergiorgio Peluso (ex Fonsai e Telecom), quest’ultimo figlio “d’arte” dell’ex ministro dell’Interno (governo Monti) ed ex Guardasigilli (governo Letta) Anna Maria Cancellieri, entrato nei fascicoli dei pm pugliesi nella sua precedente qualità di Ad di Unicredit Banca d’Impresa. Per la Banca Popolare di Bari sono indagati anche l’attuale presidente del Cda e AD, Marco Jacobini, l’ex presidente Fulvio Saroli, e il dg Pasquale Lorusso.

Cancellieri Letta e Saccomanni
Ai vertici del Governo. Cancellieri, Letta e Saccomanni

Per il ruolo avuto in Bankitalia sono indagati anche l’ex direttore generale Vincenzo Desario e gli ex capi della Vigilanza succedutisi nel tempo: Francesco Maria Frasca, Giovanni Carosio, Stefano Mieli e Luigi Federico Signorini. Per il ministero dell’Economia è indagato Giuseppe Maresca, a capo della quinta direzione del dipartimento del Tesoro. Agli otto indagati viene contestato di avere – tra il 2005 e il 2012 – adottato consapevolmente determinazioni amministrative in contrasto con la legge sull’usura fornendo un “contributo morale necessario” ai fatti-reati di usura “materialmente commessi dalle banche”.

Il pm Michele Ruggiero - Ansa -
Il PM. Michele Ruggiero

Secondo il pm Ruggiero i su citati avrebbero prescritto alle banche di calcolare (attraverso una particolare formula algoritmica) gli oneri dei finanziamenti concessi in rapporto al credito “accordato”, anziché (come richiesto dalla legge) a quello effettivamente “erogato” dal cliente, così precostituendo le condizioni per una elaborazione (e successiva segnalazione a Bankitalia) da parte della banche di tassi effettivi globali (cosiddetti Teg) falsati poiché più bassi di quelli effettivamente praticati. Di conseguenza – secondo le indagini del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Bari – gli interessi applicati dalla banche alla clientela per determinate categorie di finanziamenti (in forma di anticipazioni su c/c) risultavano sempre entro i limiti dei “tassi soglia”, pur essendo in concreto ad essi superiori e, come tali, usurari.

Le aziende ritenute danneggiate dal comportamento delle banche sono del nord barese: Bnl – secondo i conteggi della pubblica accusa – con l’applicazione dei tassi usurari avrebbe lucrato oltre 53mila euro; il gruppo Unicredit più di 15mila euro; Mps circa 27mila euro, Banca Popolare di Bari solo 296 euro.

Despar Italia, la strategia del calabrese Antonino Gatto per rilanciare i consumi in tempi di crisi

Antonino Gatto
Antonino Gatto, Presidente Despar Italia

Stefano Carli per “Affari e Finanza” (La Repubblica

«Vediamo segnali di ripresa, ma sono ancora deboli: nei grandi centri commerciali, dove prima si faticava a non far vedere saracinesche abbassate, sta tornando un po’ di fermento di nuove aperture. Ma i consumi delle famiglie sono quello che sono e quindi il mercato resta difficile: ci saranno altre chiusure, consolidamento di posizioni. E noi di Despar pensiamo di poter giocare un molo attivo».

Antonino Gatto è presidente del consiglio direttivo di Despar Italia, branch del consorzio internazionale che opera nel mondo con il marchio Spar e presidente di Gam, una delle otto società che compongono Despar Italia. Sul mercato del Bel Paese il marchio dell’abete (è il significato della parola “spar” in olandese) ha fatturato nel 2013 3,47 miliardi di euro, in calo rispetto ai 3,65 miliardi dell’anno precedente, con una quota sul mercato della Gdo intorno al 5%.

Anche per Despar il 2013 è stato dunque un anno duro, tanto che ha visto il numero delle spa associate scendere da 10 alle attuali 8 per una chiusura e una fusione. Al netto di alcune nuove aperture e dell’acquisto di nuovi associati i punti vendita si sono ridotti in un anno di oltre 100 unità, da 1.477 a 1.363. La struttura distributiva che fa capo al consorzio è mista, tra punti vendita di diretta proprietà e affiliati in franchising. Questi ultimi sono in numero il doppio dei ” diretti” ma in termini di fatturato pesano solo per un terzo.

A tenere la marginalità su livelli stabili è però uno dei punti di forza del marchio: una politica di prodotto “private label” molto spinta, che nei punti vendita più piccoli, i “super”, in particolare arriva a produrre il 23% del fatturato e che da almeno un paio di anni cresce più veloce della media del mercato, migliorare ulteriormente i conti ci sono poi gli investimenti. «Ne abbiamo in corso per un cinquantina di milioni solo nel sud Italia – spiega ancora Gatto – E sono tutti volti non all’apertura di nuovi punti vendita, visto il clima di mercato, ma alla riistrutturazione degli attuali.

Despar ItaliaRinnoviamo le strutture con uno sguardo particolare ai consumi energetici: tra nuove luci a led e sistemi di condizionamento di ultima generazione contiamo di arrivare a risparmi nella bolletta energetica fino al 25%». Altri risparmi arrivano poi, volta per volta, dal calo dei contratti di locazione: tra nuove stipule, rinnovi e revisioni si arriva ad un risparmio medio del 30%. Sul fronte degli investimenti di prodotto invece l’obiettivo è di estendere ancora di più il raggio d’azione della marca privata.

«L’ultima novità – continua Gatto – dopo aver puntato su nostri marchi nei settori dell’infanzia, del biologico e persino dell’equo solidale, è nel vino. Abbiamo selezionato direttamente le uve in cantina per creare un primo portafoglio di vini in un segmento di media qualità». Una strategia, questa della “private label” che si fa anche forza del radicamento di un marchio che in Italia e presente dal 1959. Anzi, proprio a quegli anni di boom economico risale la circostanza che ha portato al fatto che solo in Italia il marchio Spar, oggi presente in 35 paesi, compresi Cina, Australia, Giappone, Sud Africa e Qatar, oltre a quasi tutti i paesi europei, abbia un nome diverso: si è trattato infatti di un contenzioso con la Star, il gruppo alimentare della famiglia Fossati ceduto nel 2006 agli spagnoli di Gallina Bianca.

Fatturato Despar ItaliaIl logo era completamente diverso, ma il nome era troppo simile, si accettòo di mutarlo in ” Despar” e cosi e rimasto. Nonostante la lunga presenza in Italia il gruppo ha però ancora oggi un deficit di presidio territoriale. Ci sono regioni dove è ancora assente: Abruzzo, Marche, Molise, Piemonte, Valle d’Aosta. E in generale, va detto che l’insegna Despar è forte soprattutto al nord. Delle nove società, la Aspiag, che copre tutto il nord est, fa da sola la metà del fatturato, e anzi, nel 2013 è riuscita anche a far crescere le vendite dell’1 %, a 1,67 miliardi e a tagliare il nastro di una ventina di nuovi punti vendita, tra i quali 7 super nelle provincie di Udine, Gorizia, Pordenone, Padova e Bolzano e un iper a Mestre.

Tagli ai costi, investimenti e strategia delle marche private dovrebbero sulla carta dare al marchio la possibilità di giocare da protagonista in questa fase di consolidamento del mercato. D’altra parte l’ultimo vantaggio che Despar può mettere in campo e quello di far parte di un gruppo di livello internazionale. Il gruppo Spar è a tutti gli effetti una enorme centrale cooperativa che associa singoli gruppi territoriali ai quali fornisce l’ombrello unico di un marchio e di una serie di servizi centralizzati per far emergere sinergie.

Gdo in italiaAnzi, il principio della cooperazione è spinto al punto che mentre Spar International funge da centro acquisti per prodotti internazionali, per avere migliori margini nelle trattative con le multinazionali dell’alimentare è del largo consumo, in Italia Despar aderisce a Centrale Italiana, una centrale di acquisti di cui fanno parte anche Coop e i gruppi Gigante e Sigma. Due settimane fa il gruppo Spar ha tenuto la sua convention annuale a Roma, ed erano nove anni che l’italia non era più il paese ospitante. E’ stata l’occasione per il managing director Gordon Campbell di presentare i conti generali del gruppo per il 2013 e lanciare le nuove strategie. Sui primi, i numeri dicono che le vendite totali sono arrivate a 32,1 miliardi di euro, con 12 mila punti vendita in 35 paesi e con l’obiettivo di arrivare a 40 entro questo 2014.

L’Italia è il terzo mercato per vendite dietro Austria e Sud Africa, e precede di mezzo miliardo la Gran Bretagna, pur avendo quasi la metà dei punti vendita inglesi. Quanto alle strategie, Campbell ha annunciato un’accelerazione degli investimenti in comunicazione: ha parlato di 300 milioni di budget globale da investire in pubblicità. Segno di una strategia di attacco del gruppo. E, quanto alle marche private, un nuovo capitolo che vedrà ancora di più protagonista la filiale italiana: Spar creerà in tutti i suoi punti vendita nel mondo angoli di specialità alimentari territoriali. E una di questa sarà italiana, con una selezione di paste e sughi pronti: marca privata ma rigorosamente “made in Italy”.

Rende, un indipendente espugna il feudo di Sandro Principe. Vince Manna (senza partiti) grazie all'astensione e a Mimmo Talarico

Il neosindaco di Rende Marcello Manna
Il neosindaco di Rende Marcello Manna

Il capogruppo del Pd calabrese, il renziano Sandro Principe perde dopo oltre 60 anni la sua Rende, storica e incontrastata roccaforte socialista dominata prima dal padre Cecchino poi dall’ex sottosegretario di stato. Ad espugnare il comune calabrese, l’indipendente Marcello Manna, che si è messo a capo di un “laboratorio” politico composto da liste civiche fuori dagli schemi partitici tradizionali e con l’appoggio mimetizzato del centrodestra. Un “evento storico” che giunge dopo decenni di dominio assoluto e dopo numerosi tentativi della coalizione di centrodestra di contrapporre a Rende un candidato credibile in grado di “abbattere” il feudo principiano.

In controtendenza nazionale, ci riesce Manna, un avvocato molto noto agli ambienti giudiziari ma sconosciuto all’universo politico. Il nuovo sindaco di Rende ha sconfitto il candidato voluto da Principe, Pasquale Verre, (57,66% contro il 42,34) ribaltando il risultato del primo turno (37,79 di Verre contro il 31,14 di Manna) avendo alleati una forte astensione e le molte divisioni interne allo stesso Pd, come il caso del consigliere regionale Mimmo Talarico (ex Idv oggi Pd aderente da Roma alla componente Civati dopo che la Calabria gli ha negato la tessera del partito) che ha schierato al primo turno un suo candidato a sindaco (Massimiliano De Rose) strappando alla coalizione di centrosinistra un preziosissimo 13,79 percento.

Un risultato determinante che ha costretto Verre al ballottaggio e di conseguenza ha condotto Manna alla storica vittoria. La roccaforte riformista si è indebolita negli anni progressivamente per una politica “assolutista” e una gestione del potere “personale” che nel tempo ha molto irritato non solo gli avversari quanto gli stessi alleati di Principe. I primi movimenti tellurici nel

Mimmo Talarico
Mimmo Talarico

fortino principiano si sono avvertiti tra la fine degli anni ’90 e il 2005 quando Talarico da assessore all’urbanistica con Principe sindaco fece sentire il suo forte dissenso verso una gestione “dispotica e autoritaria”. Conclusa la legislatura, tra i due seguirono anni di astio arricchiti da un forte “ostruzionismo” da parte degli allora Ds (ex partito di Talarico e a quel tempo formazione “amica” di Principe) che evidentemente temevano “l’ascesa” del futuro e promettente esponente politico. Un brutto attentato nel 2004, costrinse Principe ad abbandonare per molti mesi la scena politica e ad accumulare un vastissimo “credito” solidaristico.

Sandro Principe
Sandro Principe

Le grane proseguirono tuttavia con l’ex sindaco Umberto Bernaudo, alle prese con un nutrito gruppo di dissidenti interni alla maggioranza che denunciava “l’arroganza politica” dell’attuale capogruppo dei democrat calabresi. Accerchiato da minoranza e dissidenti il dominus di Rende venne accusato di aver messo in piedi il “cartello dei palazzinari”.
Episodi che hanno lentamente logorato l’immagine dell’ormai potentissimo consigliere regionale il quale si è man mano posto in una posizione, per cosi dire, di “autoisolamento”, terminato apparentemente dopo il netto sostegno a Matteo Renzi e all’attuale segretario regionale del Pd, Ernesto Magorno. L’ultima forte scossa, la commissione d’accesso antimafia per il comune (i cui esiti finiranno poi in un nulla di fatto) disposta sotto la sindacatura di Vittorio Cavalcanti a seguito dell’inchiesta “Terminator” che portò agli arresti per presunte commistioni con le ‘ndrine rendesi, Umberto Bernaudo e l’ex assessore al Bilancio Pietro Ruffolo. In piena tempesta mediatica, lo scorso anno Cavalcanti si dimise anche in netto disaccordo con Principe.  Da allora cominciò un lungo periodo di commissariamento concluso di fatto oggi con la vittoria (solitaria) di Marcello Manna che ha dato lo scossone definitivo al fortino socialista.

La vittoria del penalista cosentino replica quella del 2011 a San Giovanni in Fiore e Cosenza, anche queste storiche roccaforti della sinistra calabrese. Il “merito” del centrodestra nelle ultime due circostanze fu determinato dalla spinta propulsiva dell’ex governatore Giuseppe Scopelliti. Mentre a Rende il sindaco Manna ha deciso di correre da solo senza i simboli dei partiti di centrodestra che hanno da sempre il demerito dell’improvvisazione con candidati last minute, confidando più nel vento in poppa di qualcuno che non nella preparazione per tempo di candidati e programmi credibili. Una strategia, quella di Manna, che lo ha ripagato nei fatti. La vittoria è tutta sua, come lo è stata il 25 maggio scorso solo per Matteo Renzi.

Juncker chi?

Jean Claude Juncker
Jean Claude Juncker

Dal Foglio di Giuliano Ferrara

Nell’Unione europea “questo non è il tempo dei diktat” da parte dell’Europarlamento, perché “nessun candidato ha ottenuto la maggioranza” alle ultime elezioni europee. Con due frasi il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ieri ha sgonfiato la bolla che si era creata attorno alla candidatura di Jean-Claude Juncker per la presidenza della Commissione.

Dopo essersi consultato con Angela Merkel e David Cameron, in un G3 europeo informale a margine del vertice del G7, Renzi ha spiegato che i leader devono “dare una risposta alle esigenze dei cittadini, non all’ambizione di singoli candidati”, altrimenti sarebbe un “gigantesco autogol” dopo il successo degli anti europei il 25 maggio. Certo, il giochetto che si era inventato l’Europarlamento dei candidati dei partiti politici europei è un “percorso di democratizzazione”.

Ma le regole sono chiare e lasciano al Consiglio europeo – cioè ai capi di stato e di governo – “il compito” di proporre il presidente della Commissione. Juncker, dopo oltre un decennio come primo ministro del Lussemburgo e otto anni alla presidenza dell’Eurogruppo, non corrisponde alla “pagina nuova” descritta da Renzi. Come del resto non lo è il secondo presidente incaricato che l’Europarlamento sogna: il tedesco Martin Schulz, diventato star dell’eurosocialismo nel 2003 per il solo fatto di essersi fatto dare dal kapò dal Cav.

[su_youtube url=”https://www.youtube.com/watch?v=1Cid8ZYPyhc” width=”480″ height=”320″]Schierando l’Italia sul fronte del realismo progressista, invece di perseguire un europeismo stantio, il presidente del Consiglio compie una scelta coraggiosa. L’Europarlamento urlerà e protesterà, magari ritardando il processo di nomina della prossima Commissione. Ma se crisi istituzionale deve esserci, meglio subito. In nome delle regole – come predica da tempo Merkel sottolineando che l’elezione indiretta del presidente della Commissione non è contemplata dai Trattati – ma soprattutto della politica come chiede Cameron quando minaccia il veto su un “volto vecchio” dell’Ue.

Uccisa la candidatura Juncker, ora il G3 deve concentrarsi sulla ricerca di un “dream team” che possa trasformare l’Ue per affrontare le sfide riempiendo di contenuti gli slogan vuoti sulla ne cessità di rilanciare la crescita e riconquistare legittimità. I francesi Christine Lagarde e Pascal Lamy sono due personalità di punta per prendere il posto di José Manuel Barroso. L’irlandese Enda Kenny e la danese Helle Thorning-Schmidt faranno sicuramente meglio del belga Herman Van Rompuy come presidente del Consiglio europeo, L’Ue degli scartini deve finire. Ci vogliono “idee”, ha detto Renzi, assumendosi la “responsabilità di fare dell’Europa un luogo di progetti coraggiosi e non di asfissiante burocrazia”

Mose, Renzi parla di "Alto tradimeno" per il giro di tangenti. Ma se è vero che i soldi andavano pure ai partiti chi fa pulizia?

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Matteo Renzi

“Alto tradimento”. Così Matteo Renzi definisce il sistema di corruzione scoperto dalla procura di Venezia in merito al Mose, la grande opera che doveva salvare la città lagunare dall’alta acqua e che invece si è rivelato un collaudato spartiacque per distribuire e ricevere mazzette tra politici, manager, imprenditori e alti ufficiali. Una nuova tangentopoli che scoppia nel pieno di una crisi etica e morale prima ancora che economica; e con una classe politica arroccata ed autoreferenziale che è distante anni luce dai bassi fondi della società. Cantone ha detto che quella di Venezia è una vicenda che supera di gran lunga l’Expò sul piano della corruzione. Detto da lui, in pochi sono disposti a metterlo in dubbio. Ma il nocciolo è che da Nord a Sud tutta l’Italia è corrosa da questo perverso sistema. C’è da chiedersi: di chi sono le responsabilità? Conosciamo la risposta: della politica e dei partiti che hanno generato in questi anni un degrado civile e morale che messo a confronto con la più nota tangentopoli del ’92 fa rabbrividire. E’ molto peggio, poiché siamo davanti a un sistema ben oleato, affinato e reso moderno nei metodi e nelle intenzioni di arricchimento personale. Il procuratore capo di Venezia nel commentare l’inchiesta, ha affermato che anche i partiti nazionali possono essere tra i destinatari delle mazzette. Saranno capaci i leader di partito a verificare (non ci vuole poi tanto) e fare pulizia? Ecco, quì cominciano a sorgere i dubbi. Per via del fatto che i tesorieri che gestiscono queste enormi “risorse” sono nominati dai segretari di partito che conoscono vita morte e miracoli di tutto e tutti. Quindi…

Ncd, il "governo d'emergenza" non ha più senso col Pd al 40%.

Renzi con Alfano sui banchi del governo
Renzi con Alfano sui banchi del governo

La “fusione a freddo” tra Pd e Ncd al governo non ha certo giovato al partito di Alfano alle ultime elezioni europee. Un risicato 4 virgola qualcosa non era nelle aspettative dell’attuale ministro dell’Interno. L’ambizione era di arrivare quantomeno al 6-7% per dimostrare alle altre forze del centrodestra, in primis a Forza Italia, che col suo partito bisognava fare i conti dopo la traumatica scissione di ottobre. Visto l’esito delle urne ha però dovuto ricredersi. L’operazione “Salva Italia” di cui Alfano e i suoi vanno tanto fieri, evidentemente non ha fatto presa sull’elettorato.

Non ha fatto presa perché le “larghe intese” nate con Berlusconi nel 2013 hanno finito per risucchiare Alfano nel poderoso vortice renziano e renderlo indistinguibile sul piano della proposta politica. Né carne né pesce, appunto (che poi era l’accusa che Angelino muoveva agli ex amici di Forza Italia). L’alleanza con l’Udc del duo Cesa-Casini, seppure in un’intesa tattica, ha largamente premiato gli ex Dc che vengono paradossalmente “riesumati” proprio sotto la spinta dell’ex segretario del Pdl.

Pensare di arrivare al 2018 facendo da spalla a Renzi e al Pd comporta per Ncd il rischio di una lenta e inesorabile dissoluzione. Per un motivo molto semplice: le azioni poste in essere da Renzi (oggi col vento in poppa), premieranno sempre lui e il suo partito.

A bocciare anche l’ipotesi di continuare per altri quattro anni assieme al Pd è stato, sul Corsera lo stesso Renato Schifani, che invocando il dialogo con Forza Italia, intravede “la fine del partito” se si insiste a stare nell’ombra ingombrante dell’ex sindaco di Firenze. Per non parlare delle future alleanze locali dove difficilmente sarà possibile replicare il modello governativo. Immaginare alleanze sotto le insegne Pd -Ncd significherebbe disorientare il corpo elettorale.

In conclusione – aspetto più importante -, con il Pd al 41% vengono meno le ragioni di un “governo di emergenza” nato con Letta e finito oggi nelle mani di Renzi dopo il fallimento di Bersani. Insistere nel mantenere posizioni in un governo di Sinistra, col premier pienamente legittimato dal voto popolare del 25 maggio scorso, significa dare un unico messaggio, opposto allo slogan “Senza base non c’è altezza” recitato al battesimo romano di Ncd: e cioè, svelare (o consolidare il sospetto) che la scissione da Forza Italia consumata a ottobre 2013 è stata più un’operazione per mantenersi aggrappati alle poltrone che per rilanciare realmente un Nuovo Centro Destra unito e identitario.

Osservatore Romano: Gesù e il sussidio di disoccupazione

Sadao Watanabe, Gli operai della Vigna (xx secolo)
Sadao Watanabe, “Gli operai della Vigna” (XX secolo)

Luigi E. Pizzolato per l’Osservatore Romano

Già molti decenni fa, Romano Guardini (Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, traduzione italiana: Milano, Vita e Pensiero, 2005, pagine 341-348, ma l’originale tedesco è del 1937) aveva istituito un accostamento tra la parabola del “figlio perduto” (o del “Padre misericordioso” o del “figlio prodigo”: Luca, 15, 11-32) e quella del “padrone della vigna” (o degli “operai dell’ultima ora”: Matteo , 20, 1-16), accomunate da un finale dove sembra scoppiare uno “scandalo” per la giustizia.

Nella parabola del “figlio prodigo” i diritti della giustizia sono reclamati dal fratello maggiore, che trova scandalosamente difforme il trattamento di favore riservato al fratello ritornato rispetto a quello a lui riservato dal padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora…» (Luca, 15, 29-30).

Nella parabola del “padrone della vigna” sono gli operai assunti per primi che giudicano scandalosa l’equiparazione della loro retribuzione a quella degli operai assunti solo al pomeriggio, cioè alla fine della giornata lavorativa: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo» (Matteo , 20, 12).

E Guardini nota che la lettura provoca anche nel lettore un moto spontaneo di resistenza che il fedele reprime non convintamente, ma solo per rispetto e fiducia nell’autorità di chi (Gesù) l’ha proposta. Per lui però lo scandalo è dovuto alla mancata percezione da parte dei protestatari e del lettore della gerarchia che intercorre tra giustizia e amore all’interno del messaggio di Cristo. Che se non la si distingue, rappresenterebbe uno scandalo lo stesso compiersi di qualsiasi conversione, visto che «ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Luca, 15, 7).

Oltre che accogliere questa distinzione, si può lavorare più a fondo anche sullo stesso concetto di giustizia. Se essa, intesa nel senso etico tradizionale, è virtù che “dà a ciascuno il suo”, si tratta di vedere con gli occhi dell’amore e di una sana antropologia che cosa comporti quel “suo” che a ciascuno spetta. Possiamo rischiare di chiederci: il “suo” di ogni uomo è quello che attiene alla sua situazione temporanea attuale — quasi in una specie di giudizio anticipato su una condizione sempre precaria e infondata — o alla sua natura originaria e finale di uomo fatto “a immagine e somiglianza”?

Che se del secondo si tratta, il ”suo” che spetta a ciascuno non rientra nella logica valutativa, ma sempre nella prospettiva finale dell’a m o re donato senza calcoli. Comunque resta un’innegabile zona di insoddisfazione istintiva nella percezione di una discrasia tra due realtà positive: amore e giustizia. E ci si chiede se non possano anche in questo caso essere declinate di conserva, senza infrangere la giustezza del senso etico comune. Già il testo evangelico suggerisce che la stessa giustizia, in quanto virtù etica distributiva (non grazioso-oblativa), non è infranta, ma, per così dire, sublimata.

Il padre della parabola lo ricorda apertamente: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (Luca, 15, 31). Il figlio che resta in casa ha avuto il continuo piacere dell’unione comunionale col Padre, anche se egli non l’ha magari percepita pienamente, proprio perché era condizione essenziale e non eminentemente distributiva. Il confronto perciò non deve prendere in considerazione solo i due trattamenti diversi finali, ma anche l’insieme delle condizioni, e ciò riequilibra in qualche modo il senso della giustizia distributiva.

Già nel De beata vita (1, 2) Agostino, ragionando sul tòpos classico della vita umana come navigazione, contempla anche il caso di chi è sempre rimasto in prossimità del porto sicuro (sua madre Monica, ad esempio), distinguendoli da quelli — dei più? — che se ne erano allontanati e vi sarebbero rientrati sospinti da quella che, col poeta, potremmo chiamare «provvida sventura».

Ivan Korzhev, Il ritorno del figlio prodigo (1998)
Ivan Korzhev, “Il ritorno del figlio prodigo” (1998)

È una sventura che per lo più ridesta nei lontani — come nel figlio prodigo — la nostalgia della casa paterna. Non a caso la parabola del figlio prodigo è discretamente ma significativamente sottesa agli inizi delle Confessioni (I, 17, 27- 18, 28; ma anche III, 4, 7) col movimento dell’«alzarsi» (surgere ) e del «tornare» (redire ), che è quello stesso del figlio prodigo: Surgam et ibo (Matteo , 15, 18).

Essa getta luce evangelica su quel meccanismo del ritorno dell’uomo al porto o a casa che è indicato come inquietudine, che è posto quasi a epigrafe dell’opera: «Ci hai fatti orientati a Te, e inquieto è il nostro cuore fino a che non trova quiete in Te» (Fecisti nos ad Te, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te: Confessioni, I, 1). L’inquietudine non è un dato puramente psicologico o, peggio, un disturbo patologico: esso è piuttosto un dato strutturale dell’uomo.

Il figlio prodigo (ogni uomo in quanto lontano) è inquieto perché è lontano e si ricorda come si stava bene prima e constata la distanza attuale da quella condizione di felicità perduta. L’inquietudine è perciò segno, a un tempo, del ricordo di Dio e della distanza da Lui; e la perenne insoddisfazione dell’uomo nei confronti di ogni meta temporanea ottenuta caratterizza il movimento della vita umana nel tempo. Il cammino di conversione è quindi un ritorno a casa, stimolato dallo stesso principio Padre che ci ha creati e che ha messo nelle nostre fibre la nostalgia di Sé.

L’inquietudine è perciò il modo e il meccanismo strutturale e originario con cui Dio fa tendere a Sé l’uomo e lo recupera a Sé, senza bisogno di interventi spettacolari di recupero, facendogli avvertire con il senso di mancanza la sua imperfezione e con il dolce ricordo il suo destino di perfezione. Lo recupera, insomma, mediante il mistero della stessa struttura desiderante dell’uomo, cioè della sua aspirazione inesausta alla felicità, che è a dire della comunione con Dio. E l’inquietudine trova sbocco finale nella buona accoglienza da parte del Padre, che ripristina con un risarcimento straordinariamente concentrato quella condizione di dolce relazione che era costantemente e normalmente “diluita” nella condizione del figlio rimasto in casa.

E se il padre è «dolce» quando dà al figlio, si fa ancora «più dolce» la sua accoglienza proprio perché il figlio «ritorna bisognoso» (egeno redeunti dulcior: Confessioni, I, 18, 28). Ma la conclusione ribalta più radicalmente ogni logica quando afferma: «Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi» (Matteo , 20, 16). Perché non invocare almeno una par condicio tra operai ultimi e primi, invece che, addirittura, una “preferenzialità ” verso gli ultimi? Qui, a mio avviso, può entrare in gioco il parallelismo con la parabola del figlio prodigo e con la festa maggiore che si fa in cielo per il peccatore che si converte. [quote] Gli operai assunti per primi sono stati in realtà avvantaggiati perché hanno risolto subito il loro problema vitale [/quote]Insomma, con la predilezione per gli ultimi in quanto già segnati dal dolore e dalla debolezza. Siamo consapevoli di azzardare, ma ci chiediamo: gli operai assunti per primi non sono stati in realtà già avvantaggiati perché hanno risolto prima il loro problema vitale e dispiegato più estesamente la loro natura attiva, più tipicamente umana dell’inoperosità degli ultimi che il vangelo chiama argòi , “senza lavoro”?

Non sarà che — come il fratello maggiore del figlio prodigo — anche i primi operai sono già stati favoriti perché hanno più a lungo usufruito della sicurezza e del contatto col padrone buono? E hanno beneficiato del rapporto di attività e di uno status, ben più consoni all’uomo che il ludibrio dell’inoperosità esposta in piazza? Bisogna considerare l’effetto economicistico del lavoro (per cui chi produce di più merita maggiore retribuzione) o l’aspetto antropologico di realizzazione umana che il lavoro comporta, per cui esso va riguardato come una specie di diritto? Secondo la stessa logica che comanda la privilegiata accoglienza del figlio prodigo da parte del padre, potremmo chiederci allora se gli operai assunti per ultimi non siano stati risarciti dal padrone per la loro incolpevole inoperosità e umiliazione, con una bontà maggiore che configura una specie di “sussidio di disoccupazione”.

Rai, viale Mazzini, il tempio eterno delle cricche di potere. 60 anni di Rai e lottizzazione politica visti da Paolo Guzzanti

Rai in bianco e neroLa stanza dei bottoni simbolo del potere: trame, cordate e bugie

Paolo Guzzanti per Il Giornale

E’ mezzo secolo che faccio il giornalista e mezzo secolo che mi tocca scrivere almeno una volta all’anno della Rai perché la Rai è il sancta sanctorum dell’Italia, il suo tesoro nascosto, la stanza dei bottoni, la camera oscura delle oscure compensazioni. Una volta si andava a viale Mazzini e si passeggiava lungo i corridoi del settimo piano, il piano nobile degli intrighi più alti. Anche intrighi nobili, volendo. Ma sempre intrighi. Funzionari e programmisti, ma anche attori e registi, scherzavano amaramente sulla loro appartenenza a questa o quella cricca, cordata, corrente. Tutti – o quasi – pronti a cambiare «linea politica» se fosse cambiato il clima politìco. Una capacità di adattamento da far impallidire, per così dire, il camaleonte.

Ci sono sempre stati, in Rai, dei «referenti» (ricordate questo termine). I referenti vanno considerati «in quota» (memorizzate anche questa di parola)!! «referente in quota» è il tizio, o la tizia, che rappresenta un partito, una corrente, un esponente, all’intemo dell’intera azienda, di una rete, di una struttura, di una trasmissione, di un tg. Una volta era facile: era tutto democristiano. Il vecchio Bubbico (curatore storico della Dc ai tempi di Moro, Fanfani e Andreotti) diceva ridendo m modo sinistro: «Noi alla Rai non facciamo la lottizzazione. Noi pratichiamo il latifondo». La «lottizzazione» èu na parola inventata su misura per la Rai, intesa come landa i cui lotti vengono distribuiti in gestione ai vassalli e ai valvassori. «In che quota sei?» equivale a «Chi è il tuo referente?».

Rai centro del potere culturaleOgni lotto lottizzato produce la sua«linea politica». La Rai è infatti una trama di «linee editoriali». Che cosa sono? Sono il nome aulico delle bugie. Un tempo esistevano soltanto le bugie democristiane, poi vennero quelle socialiste, quelle comuniste e di tutti gli altri partiti, somministrate attraverso i tg in appalto ai partiti. Poiché i tg affidati (anzi occupati dai) partiti devono tirare la coperta dalla parte politica di cui sono espressione, anche le notizie, gli approfondimenti, persino il tono di voce e lo sguardo dei giornalisti, fanno parte di una impalcatura teatrale, la «linea politica», che è un castello di menzogne, manipolazioni, omissioni e gonfiature, pietosamente definito «linea editoriale».

La «linea editoriale» è un residuato bellico della Guerra fredda. Durante la Guerra fredda tuttora attiva sotto forma di guerra civile a bassa intensità – i grandi partiti, specialmente Dc e Pci.decisero che la verità fosse un optional.
Ognuno ha la sua e non stiamo a sottilizzare. Mentre i giornalisti di tutto il mondo civile erano assunti o licenziati secondo la loro bravura, quelli italiani venivano assunti e (mai) licenziati secondo «appartenenza». L’appartenenza è un derivato del referente (vedi sopra). Gli «appartenenti», per tradizione cavalieresca, non si licenziano, ma si accumulano negli stipendi inutili e nelle carriere frizzate.

Un tempo alla Rai facevano carriera anche giornalisti, intellettuali, tecnici, sceneggiatori o programmisti che erano semplicemente bravi. Carlo Emilio Gadda per fare un nome.Ci fu un tempo in cui la Rai era anche una scuola di vita e di produzione culturale non conformista. Oggi il conformismo avvelena tutti i pozzi. Prima della lottizzazione integrale sopravviveva una sorta di fair play. Poi vennero i socialisti entrati da poco nella «stanza dei bottoni» (così il loro leader Pietro Nenni chiamava l’immaginario luogo delle grandi decisioni) e con loro entrarono non soltanto intellettuali e giornalisti, ma anche una feccia di portaborse e arrampicatori.

studio Tv Rai anni 50L’ingresso progressivo dei partiti – il Pci ottenne un’intera rete e un telegiornale tutto suo – fece a pezzi la parte più sana dell’azienda. Tuttavia, la Rai ancora amministra il potere, che ha bisogno di lei. Oggi si parla tanto del Web come se avesse sostituito la televisione, ma si tratta di una forzatura. I talk show hanno il loro peso (decrescente) e i telegiornali anche. È vero che si sono aggiunte le altre reti, La7 in particolare, con un potente apparato politìco.

Ma la Rai che «non è la Bbc» come ironizzava Renzo Arbore – ha mantenuto e mantiene il suo primato. Qualcuno starà già scalpitando: ma non dici niente di Mediaset? Dico questo. Parecchi anni fa chiesi a Beriusconi: lei ha ben tre reti televisive, il primo settimanale italiano e un quotidiano di alto prestigio. Come mai non ha varato una politica editoriale capace di contrastare sul piano culturale e politico le forze congiunte di RaiTre, la Repubblica e l’Espresso? Berlusconi mi rispose che le sue reti sono commerciali, devono servire un pubblico generalista per vendere pubblicità.

Ed è così: malgrado lo sfegatato berlusconismo di alcuni personaggi, le reti Mediaset non sono mai state né intendono diventare antagoniste culturali della Rai. Dunque la Rai resta con tutti i suoi pregi e vizi genetici. Piena di ottimi lavoratori, spesso capace di (costosissime) eccellenze, ma prima di tutto uno strumento con cui (illudersi di) esercitare il potere. Tutti i giornalisti Rai che ho conosciuto in tanti anni, senza eccezione di età, genere e partito, si sono tutti dichiarati infelici, imbavagliati, sottoposti a un controllo e a una logica agli antipodi dell’idea di un servizio pubblico.

Gratteri in audizione al Senato: "In carcere entrano troppi politici"

Il magistrato Antimafia Nicola Gratteri
Il magistrato Antimafia Nicola Gratteri

Gratteri: “In carcere entra troppa gente. Appena c’è un arresto eccellente con le scuse più incredibili entrano in carcere da 50 a 100 parlamentari. Ci sono troppe associazioni di volontariato senza che vi sia una selezione su che tipo di volontariato va a fare. In carcere devono stare solo i detenuti e la polizia penitenziaria”.

Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, in audizione presso la Commissione Diritti umani non ha dubbi e al Senato ribatte punto su punto alle obiezioni dei senatori che lo incalzano sul 41 bis cui una delle cose che si sente è concedere “Sul regime di carcere duro del 41 bis si tratta di perfezionare un percorso senza incidere sui diritti umani ma come unico obiettivo sconfiggere le organizzazioni mafiose”, afferma.

“Occorre – ha proposto Nicola Gratteri – aumentare il numero delle aree riservate per non consentire la comunicazione fra tutti i detenuti. Occorre destinare alle aree insulari i capi delle organizzazioni. Assicura un’adeguata rotazione di tutto il personale Gom della penitenziaria senza creare assuefazione all’ambiente. Occorre attuare la video conferenza a tutti i detenuti e cio’ porterebbe incredibili risparmi sia di costi che di personale impegnato nelle traduzioni”.

“Il 41 bis è uno strumento irrinunciabile per contrastare le organizzazioni mafiose ed ‘ndranghetiste – ha sottolineato Gratteri – e va affrontato con obiettivi chiari perché solo cosi c’è un bilanciamento con i diritti umani. Lo scopo del 41 bis è la riduzione e controllo del flusso di comunicazione con l’esterno: impedire il governo degli affari criminali che i capi assumano decisioni ed emettano sentenze di morte. Impedire la gestione della ricchezza finanziaria ed è uno strumento anche per intercettare i patrimoni poiché determina vuoto di controllo delle risorse e favorisce la venuta allo scoperto dei patrimoni”.

“Occorre costruire quattro carceri per il 41 bis e concentrare tutti i detenuti sottoposti al regime di carcere duro. Quattro carceri con quattro direttori specialisti sul 41 bis”. È l’invito del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, ascoltato oggi dalla commissione sui Diritti Umani del Senato sul regime del 41 bis.

“Le sezioni carcerarie adattate al 41 bis – ha detto Nicola Gratteri alla Commissione – sono distribuite su 12 carceri e questo è già un’anomalia: ci sono quindi 12 direttori di carceri con 12 interpretazioni diverse sul 41 bis”. “Per far funzionare il 41 bis – ha detto ancora il procuratore Gratteri – servono soldi e non ci sono. Occorre essere seri e fare i tagli dove serve e non solo tagli lineari come fatto fino ad ora”. “Perché – si è chiesto Gratteri – non si riaprono le carceri di Pianosa e dell’Asinara chiusi nel 1994? Quando si riparlera’ di sovraffollamento carcerario voglio quale partito politico proporrà la loro riapertura”.

“La fuga di notizie sulle minacce fatte da Totò Riina indica che qualcosa non ha funzionato e che nelle carceri entra troppa gente”. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, nel corso di un’audizione sul regime del 41 bis davanti alla commissione sui diritti umani del Senato. Parlando sempre delle minacce di morte fatte da Riina al pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, il procuratore Gratteri ha invitato per il futuro “a fare attenzione anche alla fuoriuscita della piu’ innocente notizia poiché i boss hanno un modo criptico di parlare”.

“Io sono favorevole a mandare i detenuti del 41 bis a coltivare la terra. Vadano nei campi di lavoro e non a guardare la televisione 10 ore al giorno”. Lo ha affermato il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, parlando del 41 bis davanti alla commissione diritti umani del Senato.

“Sono per il lavoro come terapia rieducativa per il detenuto – ha spiegato il procuratore Gratteri – la legge dovra’ prevedere lo strumento rieducativo altrimenti il lavoro lo dovremo pagare e certamente non ci sono i soldi per pagare tutti i detenuti. Occorre un atto di coraggio e cambiare la norma. Ci sono capi mafia cinquantenni o sessantenni che non hanno mai lavorato in vita loro”.

Questa Ue peggio del nazismo: ha pianificato morte e distruzione

 barroso e oligarchi UeL’Europa, questa Europa, ci regala prospettive anni ’20. La disoccupazione è alle stelle, quella giovanile è al 46 percento. Una stima che al Sud supera il 60%.

I ragazzi, e non solo loro, sono costretti ad emigrare per cercare lavoro. Questa è la magica teoria della crescita zero impostaci da Bruxelles. Intanto in Italia si studia il modo per accrescere l’occupazione: flessibilizzare di più.

Ecco il disegno degli strateghi per un un paese rimasto senza industria e con un micro tessuto produttivo massacrato dal fisco e aggredito dalla concorrenza spietata (e sleale) dei cosiddetti paesi emergenti.

Da questo paese scappano pure gli immigrati per la disperazione. Renzi dice che riformerà questo paese in direzione di una maggiore competitività. Ma non si può crescere ed essere competitivi se abbiamo i cinesi che ci fanno le scarpe in tutti i sensi.

L’Ue, questa Ue, è il male assoluto, peggio del nazismo. Ha pianificato la nostra distruzione in modo scientifico. L’Italia, come le altre nazioni europee, deve uscire da questo tunnel senza uscita.

L’unico modo è lasciare l’Ue dei banchieri e tornare al protezionismo per difendere gli interessi che l’Europa “comunitaria” non è riuscita a difendere. Dobbiamo tornare a essere un paese pienamente sovrano che possa battere moneta anziché battere debiti e disperazione.

Mose, lo spartiacque delle tangenti a Venezia. Arresti eccellenti. Dentro il sindaco Orsoni e altri. Richiesta per Galan

Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni
Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni

L’avevano chiamato Mose per difendere Venezia dall’alta marea e invece avrebbe finito per difendere – vista la crisi – il conto in banca di molti che stamattina sono stati arrestati in esecuzione di una ordinanza disposta dalla Procura di Venezia.

In manette 35 persone tra politici, imprenditori, manager ed ex militari tra cui il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni del Pd (ai domiciliari), l’assessore regionale veneto alla Mobilità, Renato Chisso, il generale in pensione della Gdf, Emilio Spaziante e per l’ad di Palladio Finanziaria, Roberto Meneguzzo, alcuni dei nomi più eccellenti.

Le ipotesi di reato a vario titolo sono corruzione, concussione e riciclaggio. Nell’inchiesta su presunti fondi neri accumulati dagli allora vertici di una azienda operante nella costruzione del sistema Mose per la difesa di Venezia dalle acque alte anche una richiesta di arresto per Giarcarlo Galan, ex governatore del Veneto ed ex ministro con Berlusconi e ora parlamentare di Forza Italia.  Ai domiciliari è stata posta Lia Sartori, europarlamentare uscente azzurra non rieletta nella tornata del 25 maggio scorso.

L’inchiesta sul Mose parte da lontano e ha preso avvio da un filone dell’indagine per presunte mazzette relative ad opere autostradali lungo la A4 riguardanti una società presieduta da Lino Brentan. Patteggiata la pena per quella vicenda, Brentan oggi risulta tra gli arrestati per la nuova indagine della Procura di Venezia. Da quel filone la Guardia di Finanza, coordinata dalla Procura di Venezia, è giunta ai presunti fondi neri creati da Piergiorgio Baita, all’epoca dei fatti ai vertici della Mantovani, la società leader nella realizzazione del Mose e all’interno del concessionario unico Consorzio ‘Venezia Nuova’ (Cav).

Gli inquirenti sono riusciti poi a risalire agli allora vertici della Cav, con l’arresto del presidente Giovanni Mazzacurati e di altre persone. Nei giorni scorsi, nel quadro del filone riguardante l’ex presidente della Mantovani l’invio di uno stralcio del fascicolo al tribunale dei ministri relativo all’ex ministro Altero Matteoli. Con un’alleanza che spaziava dal Pd all’Udc, Giorgio Orsoni nel 2010 fu eletto sindaco al primo turno contro Renato Brunetta, “tradito” dalla Lega che fece il pieno nel nord-est ma i voti non si trovarono nelle urne veneziane.

Con l’inchiesta di stamani arriva la conferma che dietro una grande opera c’è sempre (o quasi) un vorticoso giro di tangenti. L’inchiesta sul giro di mazzette sul Mose era già nell’aria da tempo e cammina parallela ai grandi appalti dell’Expò di Milano 2015 e ad altre grandi opere pubbliche al Nord. A testimonianza che l’era di Tangentopoli non è affatto finita vent’anni fa, ma prosegue costante con strategie più affinate.

Marò, invito all’evasione. Scambiamo Monti, Passera e Di Paola per i due fucilieri.

Massimiliano Latorre e Salvatore Girone
I marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone

Marò, questi sconosciuti. Ieri è stata celebrata la festa della Repubblica. In un collegamento video i militari Massimiliano Latorre e Salvatore Girone hanno sfogato il loro sdegno contro il governo italiano per la loro assurda detenzione in India. I fatti sono arcinoti. Nel video abbiamo visto i due fucilieri della Marina gridare con rabbia: “Abbiamo eseguito degli ordini, riportateci a casa!”.

Ebbene, si suggerisce ai nostri due connazionali di evadere (evadere) quanto prima vista l’inaffidabilità del governo italiano (se ne sono succeduti 3: Monti, Letta e ora Renzi). Fossero stati militari della Marina Usa sarebbero già rientrati negli Stati Uniti dopo appena una settimana, come i due marines che tranciarono la funivia del Cermis (20 morti) nel ’98. E l’Ue? Pensa a salvare le banche!

Potremmo pensare pure di inviare le teste di cuoio a fare un blitz. In alternativa, si potrebbe sempre suggerire al governo di New Delhi uno scambio. Loro ci restituiscono i soldati e noi gli rifiliamo l’ex premier Mario Monti detto il “professorone”, e l’ex ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, altro “scienziatone” del governo tecnico, entrambi con enormi responsabilità sul drammatico destino dei due militari Nato. Anzi, spediamoci anche Corrado Passera (curatore di “raffinati” interessi con l’India) e, perché no, anche Giorgio Napolitano detto “l’indiano” per via della sua abilità a vedere e sentire solo ciò che gli conviene.

Lui che è stato capace di realizzare la “repubblica presidenziale” facendo nei fatti gli ultimi tre governi, dettando loro la linea politica, scegliendo ed escludendo ministri, è stato incapace di andare in India e prendere di petto la questione marò. Che figura, Giorgio!
E’ un 3 x 2 molto conveniente. Dai, Matteo (Renzi), provaci! Avrai molta più fortuna degli 80 euro che l’Ue ti ha vanificato con la “letterina”. Se riporti i marò in Italia otterrai il 40% a vita, fidati!

A mamma Rai non piace la "tagliata"

RaiNon sembrano placarsi le tensioni sulla Rai. L’azienda al completo ha annunciato uno sciopero nazionale per protestare contro il taglio da 150 milioni previsto dal decreto Irpef varato lo scorso aprile. In difesa del servizio pubblico sono scesi i sindacati tradizionali, i quali attaccano Renzi (che non intende retrocedere) mentre il garante per gli scioperi ha bocciato la protesta della tv di Stato. Intanto la commissione Finanze del Senato ha approvato un emendamento che esclude dai tagli le società partecipate. Un altro correttivo, potrebbe scongiurare sempre a palazzo Madama, l’accorpamento delle sedi regionali.
Insomma, tutto cambi affinchè nulla cambi sembra essere il copione. La Rai è un’azienda che spreca e accumula debiti come Alitalia e non vuol sentir parlare di tirare la cinghia come sono costretti a fare gli italiani. A mamma Rai evidentemente non piace la “tagliata” di stato.
Ma Renzi in questo ha ragione. “Tocca anche a voi…”. Si ha la vaga impressione che attraverso la mobilitazione dei “piani bassi” di Viale Mazzini saranno salvate dalla “scure” i piani alti dove vegetano da decenni i nababbi del pubblico, cioè supermanager, conduttori, consulenti e blasonati giornalisti che percepiscono somme da capogiro a carico della povera plebe.
A proposito della compagnia di bandiera – salvata anni fa dal default con l’intervento dello Stato: il ministro Poletti fa sapere che ci sono 2500 esuberi. Il titolare del Lavoro insieme al governo si è speso per salvare un centinaio di operai di Elettrolux ma forse non riesce a far nulla per salvaguardare i posti di lavoro in Alitalia. L’operazione con Etihad potrebbe saltare se non si riducono i costi? Ancora nessuna notizia degli esuberi Rai e si spera non ce ne siano (perchè dispiace sempre quando qualcuno ti dice che sei un “esubero”) ma questa autodifesa a oltranza della Rai fa supporre ben altro. È evidente che se venisse confermato il taglio da 150 mln Gubitosi sarà costretto ad applicare la tagliola a cascata. Iniziasse però dalle sue stanze per finire al parco auto…

L'Ue continua a dare compiti all'Italia

il-premier-matteo-renzi-e-il-ministro-dell-economia-pier-carlo-padoanRoba da non credere. La Commissione europea continua con ostentata indifferenza a dare compiti all’Italia ignorando di fatto l’esito elettorale del 25 maggio scorso. In una lettera di “raccomandazioni” l’Ue guidata (ancora per quanto?) da Barroso chiede nuovamente al governo italiano “sforzi aggiuntivi” per il 2014, che tradotto significa maggiori sacrifici all’insegna della austerità. Non sappiamo se questo si tradurrà nell’ennesima manovra lacrime e sangue contro i cittadini ma un dato è acclarato. Con la richiesta esplicita di applicare maggiori tasse sui consumi (aumento dell’Iva, carburanti eccetera) l’Ue annulla gli effetti dei famosi 80 euro che Matteo Renzi ha voluto dare a chi guadagna meno di 1500 euro al mese proprio per arginare il calo vertiginoso dei consumi e dare un po’ di ossigeno alle famiglie. Una misura, questa, “bruciata” dai tecnocrati di Bruxelles. Vedremo se il premier italiano ha coraggio di opporsi e rispedire al mittente la “letterina” oppure chiederà, per il tramite di uno dei portavoce delle lobby Ue, Padoan, una timida quanto imbarazzata deroga…

Forza Fitto! Il dissidente azzurro contro Berlusconi e l’unanimismo imperante

Raffaele Fitto
Raffaele Fitto

E’ resa dei conti in Forza Italia. Archiviate le europee dove il partito di Berlusconi è precipitato al 16 percento, avanza prepotente l’idea di un radicale rinnovamento. L’alfiere di questa “sfida” porta il nome di Raffaele Fitto, ex governatore pugliese ed ex ministro dell’ultimo governo di Silvio.

Alle ultime elezioni ha conquistato uno scranno a Strasburgo a suon di preferenze. Ne ha totalizzate quasi 285mila. Il più votato in assoluto dopo Simona Bonafè, del Pd (4mila voti di più).

E ora questi voti “di stima” li ha serviti al ghota romano per rilanciare l’unità del centrodestra e, cosa più importante, chiedere a gran voce le primarie per scegliere il nuovo leader di un partito dinastico ancorato (purtroppo ancora) attorno alla figura di Berlusconi.

Una proposta che ha creato molti mal di pancia, primo fra tutti proprio all’ex premier che vede come fumo negli occhi chiunque possa strappargli la leadership. A ruota i soliti “falchi” che da Verdini, Brunetta e Toti a Gelmini, Tajani e Romani, per citarne alcuni, hanno fatto quadrato attorno al Cavaliere. “Le primarie non sono necessarie, un leader ce l’abbiamo già e si chiama Silvio Berlusconi”, è il consueto monologo. Fitto insiste è per un po’ lascia intuire che se non si avvia un processo di profondo cambiamento nel partito azzurro sarebbe disposto ad un’altra scissione come quella che fece Alfano con Ncd. Ipotesi poi smentita.

Lo scontro è aperto e abbastanza lacerante. Da una parte ci sono i “cortigiani” di Arcore in difesa dello “status quo” (quello che ha consentito a gente senza voti di essere nominanti da vent’anni a questa parte in parlamento e ai vertici delle istituzioni), dall’altra un gruppetto di donne e uomini coraggiosi (tra cui Carfagna, Capezzone, Rotondi e altri) che ha intrapreso la via più scomoda del dissenso. Un po’ tardi, è vero. Ma meglio tardi che mai, viene spontaneo pensare.

Naturalmente siamo a favore della compagnia capeggiata da Fitto, così come in passato “tifammo” per Renzi, Meloni e Alfano e chiunque in futuro mostri coraggio e attributi nell’affrancarsi da quell’unanimismo imperante che ha fatto precipitare l’intero paese, prima ancora che qualche partito. Non sappiamo se l’ex titolare degli Affari regionali riesca a spuntarla in questa battaglia contro le truppe “Yes Sir” di Berlusconi, ma è già una grande vittoria aver messo in discussione la leadership di un uomo che con intelligenza avrebbe fatto bene a mettersi da parte già molti anni fa. Forza Fitto! Il piccolo grande Davide contro un vecchio e acciaccato Golia.

Padoan e le pensioni: non ci andrete mai. Chi riceve vitalizi d'oro esegue gli ordini dall'Ue in barba all'esito elettorale.

Matteo Renzi con Pier Carlo Padoan
IL POLITICO E IL TECNICO Renzi con Pier Carlo Padoan

Un paese in recessione che cresce al ritmo dello zero virgola zero “ha bisogno di riforme strutturali”, il che significa una sola cosa: abolire lo stato sociale delle attuali e future generazioni. Il copione è lo stesso. Sempre quello suggerito “riservatamente” nell’estate del 2011 dai banchieri al governo Berlusconi prima di farlo capitolare. I famosi “compiti a casa” che dopo la defenestrazione del cavaliere, li ha fatti fare agli italiani Mario Monti, il professorone scelto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano a guidare il governo dei “tecnici” tanto caro a quella nomenclatura finanziaria che milioni di cittadini hanno sonoramente bocciato il 25 maggio scorso.

Oggi a guidare l’esecutivo c’è “l’innovatore” Matteo Renzi, colui che rottama e ribalta, almeno a parole, modelli e visioni precostituiti nel continente dominato dalle camarille che risiedono nel “triangolo della morte”. Almeno a parole, poiché di concreto nell’auspicato “cambio di passo” nell’Ue ci sono soltanto gli annunci “volenterosi” dell’ex sindaco di Firenze.

Si dirà che Renzi ha bisogno di tempo, ma il canovaccio recitato da quanti si sono succeduti negli ultimi 20 anni sembra lo stesso e fanno presagire che attorno al movimento agitato dell’acqua, lo “scoglio” dell’austerity rimarrà solido e ben saldo sul fondo là dove i “comandanti” dell’Unione europea han voluto adagiarlo.

Ne è la dimostrazione l’ultima uscita del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che prima al Wall Street Journal – giornale portatore degli interessi della Finanza – rilancia e protegge lo “scoglio”, partendo proprio dalle pensioni: “Sono favorevole – dice – ad un graduale aumento dell’età pensionabile”. Poi al festival dell’economia di Trento, incalzato, conferma. Le agenzie battono la notizia e si leva un polverone tra organi politici e sindacali. Il ministro dell’Economia, probabilmente sollecitato, si affretta a smentire. Ma nella smentita ribadisce il concetto espresso all’estero. “Non ho detto che il governo stia pensando ad alzare l’età pensionabile che è già indicizzata alle aspettative di vita”. Semplicemente “non sono d’accordo a interventi per abbassare l’età pensionabile che stanno facendo alcuni Paesi, come la Germania”, paese che sta facendo quel giro di boa che l’Italia e altri paesi impiegheranno un secolo a compierlo.

Mario Draghi insieme al ministro Padoan
SINTONIA Mario Draghi col ministro Padoan

Fuori dal tecnicismo, per andare in pensione ci vorranno 70 anni con almeno 50 di contributi, poi 75, infine tra qualche anno 80, magari con 60 di contributi versati. Sembra grottesco ma le menti perverse di Bruxelles lo pensano davvero. Come? Truccando e manipolando le aspettative di vita attraverso gli istituti di statistica. Ecco la gradualità di cui parla Padoan.

A questo punto bisogna chiedersi che senso ha versare per mezzo secolo contributi (obbligatori!) all’Inps per “una scommessa” – quella di arrivare all’età pensionabile – che sappiamo di non poter vincere mai. O, se va bene, ne “beneficeremo” per qualche annetto pagando la retta di qualche ospizio.
Chi invece prende queste decisioni di questa portata per nostro conto riceve già vitalizi d’oro di 20/30mila euro al mese…

Per tornare alle frasi di Padoan, il ministro ai mercati ha detto “non preoccupatevi, perché continueremo a fare i compitini a casa in modo più serrato”, mentre agli italiani ha fatto intuire, tra il detto e il non detto, che la pensione da qui a qualche anno sarà soltanto una cupa illusione. La riforma Fornero non solo è la via maestra ma bisogna rafforzarla per rendere ancora più solido e impermeabile lo “scoglio” del rigore che tradotto significa “graduale” smantellamento del welfare.

Insomma, non ci saranno “mareggiate” capaci di scalfire ed erodere il potere costituito. Pier Carlo Padoan del resto è un tecnico di “successo” giunto ai piani alti della nomenclatura europea perché è uno che si “adatta” e soprattutto sa eseguire gli ordini come seppero eseguirli Dini, Ciampi, Prodi, Berlusconi, Monti e Letta con dietro le quinte sempre lui, Giorgio Napolitano che oggi in un messaggio per la festa della Repubblica ha predicato ancora la necessità delle “riforme strutturali”.

Chiuque si rifiuti di eseguire gli ordini è fuori dal giro che conta. Siamo punto e a capo. Nonostante la “rivoluzione renziana” lo scetticismo prevale sulle operazioni di facciata, quelle volute dal Quirinale che nella formazione del governo dell’ex sindaco ha imposto (senza averne titoli) non solo i ministri ma anche la linea politica aderente al volere di mercati e ai poteri forti. Le “riforme strutturali” imposte da questa tecnocrazia significano la morte del lavoro, quella delle imprese, la morte dello stato sociale, la morte dei cittadini. Per salvarci l’unico modo è tornare alla sovranità degli stati nazionali com’eran prima che entrasse in vigore il trattato di Maastricht. Una terza via esiste.

Renzi: "Berlusconi continua a esserci nonostante ciò che ha subìto. Sbagliata la superiorità morale della sinistra".

Matteo Renzi - Pietro Masturzo per "La Stampa"Fabio Martini per La Stampa.

Sin dalla notte della larghissima vittoria elettorale Matteo Renzi si è imposto un understatement e un profilo basso che hanno di nuovo spiazzato tutti e cosi, anche chiacchierando nel suo studio di palazzo Chigi con i corrispondenti di alcuni dei più importanti giornali europei che gli chiedono di una sua possibile leadership Ue, lui si vieta ogni trionfalismo: «Non credo che il senso delle elezioni sia che è nato il leader Matteo Renzi.

No, il senso delle elezioni è che l’Italia può giocare un ruolo, che l’Italia non è l’ultima ruota del carro, che l’Italia è un Paese che, se cambia, può diventare lei leader d’Europa». In jeans scoloriti, camicia bianca senza cravatta, Matteo Renzi mantiene il suo tono scanzonato e a Philippe Ridet de «Le Monde» che gli chiede un pronostico sul mondiale di calcio, lui risponde: «Sono troppo amico di Cesare Prandelli e poi dicono che se l’Italia vince i Mondiali c’è un punto in più di Pil…». Ma la Francia lo ha vinto nel ’98 e non è arrivato nulla…». Renzi: «Facciamo così , noi lo vinciamo e poi controlliamo, io mi accontento anche di mezzo punto!».

Presidente, è la terza volta in due anni che questo pool di giornalisti viene qui a palazzo Chigi: prima c’era Monti, poi Letta, ora lei. Pensa che il prossi mo anno ne troveremo un altro? Quale è la ricetta per restare?
«Non so se sia un bene o un male, ma credo che per qualche anno non ne vedrete altri! L’Italia ha scelto la stabilità e per noi stabilità significa fare riforme molto dure e molto forti. Possiamo permetterci di dire che vogliamo cambiare l’Europa perché partiamo da noi. Perché da noi, dopo 70 anni, non si è votato per le Province. Perché la riforma elettorale è stata approvata in prima lettura. Perché la riforma della Costituzione è ben incardinata al Senato. Perché la riforma del lavoro, scandita in due parti, è già avviata; perché la riforma della Pubblica amministrazione sarà attuata il 13 giugno; perché la riforma della giustizia sarà presentata entro giugno; perché il 30 giugno inizierà il processo civile telematico. L’Italia sta profondamente cambiando».

La stabilità consente il cambiamento?
«Si, anche perché il segnale delle urne non si presta ad equivoci. È la prima volta dal 1958 che un partito prende più del 40 percento, allora credo fosse al governo Fanfani: 56 anni fa. Più forte di così gli italiani non potevano parlare».

Un voto politico o un atto di fede?
«E’ difficile interpretare i flussi elettorali, a maggior ragione è difficile interpretare le emozioni elettorali. Penso che le due cose stiano assieme. È un atto di fede, basato su un ragionamento politico. C’è un modo tipico di dire, buffo, dei politici italiani che perdono le elezioni: ah, gli italiani non ci hanno capito… Come se fosse colpa degli elettori! Ma rovesciando quel modo di pensare, si potrebbe dire che stavolta sono stati gli italiani ad aver capito noi, più e meglio di quanto non sia stata capace la classe dirigente, i giornalisti, i politici».

Dopo tanti falsi allarmi, stavolta l’Europa sembra davvero al bivio, ripensarsi o rischiare di perdersi. L’altra sera, alla cena di Bruxelles con gli altri capi di Stato e di governo c’era la percezione di questo bivio o sono state espresse preoccupazioni rituali?
«Non so valutare le singole posizioni, io dico che se vogliamo salvare l’Europa, dobbiamo cambiarla. Anche nel nostro Paese, quello con la percentuale più alta di votanti e nel quale si è affermato il principale partito al governo, chi ha votato per il Pd ha comunque chiesto di cambiare l’Europa, non di conservarla come è».

Lei sosterrà la candidatura di Juncker alla presidenza della Commissione europea?
«Il presidente Van Rompuy ha ricevuto un mandato da parte di tutti i governi per trovare un accordo globale, che tenga assieme gli incarichi di maggiore responsabilità. La posizione del governo italiano è molto chiara: nomina sunt consequentia rerum. Prima di ragionare di nomi, mettiamoci d’accordo sull’agenda. Mi interessano più i posti di lavoro che i posti di potere».

Un profilo del leader della Commissione?
«Deve amare l’idea dell’Europa e oggi i veri amanti dell’Europa sanno che così come è, va cambiata. Deve amare l’Europa, ma con uno sguardo da innovatore».

Dopo le elezioni Europee come sono i suoi rapporti con la cancelliera Merkel? E’ vero che durante la cena di Bruxelles lo ha chiamato «il matador»?
«Si matador, ma non d’Europa! Ci siamo messi a discutere cosa significasse matador, l’origine dell’espressione. D’altra parte ci eravamo sentiti il giorno prima per complimentarci reciprocamente».

Sì, ma ora vi attende un confronto che potrebbe vedervi su sponde opposte…
«Ho un ottimo rapporto con la signora Merkel, ho sempre detto che se l’Italia o altri Paesi hanno dei problemi, la colpa non è dell’Europa. Di più: trovo volgare e inelegante il modo in cui alcune forze politiche hanno cercato di prendere voti, parlando male della Germania. Noi abbiamo preso i voti parlando bene dell’Italia, che però va cambiata. Da questo punto di vista la Germania per me è un modello, non un nemico. Lo è quando penso al mercato del lavoro, o alla sua struttura pubblica. Questo non significa non avere idee diverse su tante questioni. È del tutto evidente che oggi la Germania ha tutto l’interesse che l’Italia corra. E l’Italia ripeterà che l’impostazione di fondo dell’Europa non deve essere centrata soltanto sull’austerità ma anche sulla crescita, l’occupazione e le riforme».

Ogni Paese mette sempre grande enfasi sulla propria presidenza dei semestri europei, ma poi è difficile individuare un semestre memorabile. Lei ha una idea-forte per dare un segno italiano al prossimo semestre?
«Non vorrete mica che ve le dica adesso? Non posso bruciarmi le notizie! So che dal 2 luglio, giorno del mio intervento al Parlamento europeo, il nostro impegno sarà forte anche per la favorevole congiunzione astrale: rinnovo degli organi, soldi della nuova programmazione fino al 2020, necessità condivisa di un cambio di paradigma nelle politiche economiche». Sull’immigrazione cosa chiederà l’Italia?
«Prima di chiedere, l’Italia agisce. Veder morire dei bambini di 3 anni in fondo al mare dicendo che non è un problema nostro, è incivile e immorale. È contro le regole del mare e di una cultura dell’accoglienza che era nata nel Mediterraneo: la cultura ateniese e romana. Abbiamo imparato che l’accoglienza e il salvataggio dell’ospite è un valore sacro. Con l’operazione Mare Nostrum stiamo salvando tante persone. Ma l’Europa deve richiamare le Nazioni Unite ad intervenire in Libia e più in generale avere una capacità di gestione dei fenomeni immigratori. Pensiamo che Frontex possa essere utilizzato di più e meglio».

Lo scandalo Expo ha fatto riemergere antichi personaggi…
«E’ una guerra che vinciamo. Ogni volta che emerge uno scandalo, dobbiamo allarmarci, ma anche rallegrarci che la magistratura funziona. Una certa mentalità non si cambia con un decreto legge. Ma il fatto che un ragazzo con meno di 40 anni rappresenti il Paese, è il segno che gli italiani sono capaci di tutto. Nel bene e nel male».

A gennaio lei disse ad Enrico Letta: stai sereno, nessuno vuole prendere il tuo posto. Oggi pensa che sarebbe stato meglio non dirlo? E perché dopo aver criticato la vecchia classe politica lei ha preso il potere con una manovra che èapparsa di Palazzo?
«Io ho detto quella frase perché ne ero convinto, profondamente convinto. In quel momento spronavo il governo Letta a rimettersi in moto: era come una macchina che aveva esaurito la batteria. Io ho cercato di dare il mio contributo al governo perché quella macchina ripartisse, ma la macchina non si è riaccesa, non per un gioco di Palazzo ma per una responsabilità di quella classe dirigente. C’è stato un processo di esaurimento di quel Governo, negarlo oggi è anche ingiusto ed io ho molto sofferto dal punto di vista personale. Da parte nostra, assumere la guida del governo è stato un atto di generosità. Io so come sono andate le cose e anche Enrico Letta lo sa».

Oggi possiamo dirlo? Alle Europee sarebbero arrivati logorati sia il governo cheilPd?
«Io credo che il tempo sia galantuomo e credo che allora essermi costretto al silenzio sia stato un bene nell’interesse del Pd, del governo e del Paese».

Sinceramente la sua visione di fare politica è cambiata in questi mesi?
«Intanto è cambiata la mia vita personale nel senso che io vengo da una esperienza amministrativa, della quale ero felice e ora invece passo da questo piano al terzo piano dove c’è l’appartamento del Presidente del Consiglio, ho la scorta che non ho mai avuto in vita mia perché io da sindaco, a differenza di certi politici italiani, viaggiavo in bici tranquillamente per i fatti miei…».

Ma ora legge e vive la politica in modo diverso?
«Penso che con un governo di quarantenni, tra dieci anni i rottamati saremo noi e questa è una bella cosa! La politica è un’esperienza straordinariamente affascinante ma non la fai per sempre. Questo mi porta a dire che io vivo con urgenza questo tempo: per me la clessidra è voltata ogni momento, nessun giorno è sbagliato per cominciare a cambiare davvero e da questo punto di vista, ciò mi porta a dire che voglio fare velocemente le riforme. Penso che tra dieci anni mi piacerebbe lasciare anche alla mia terza figlia Ester, che allora sarà maggiorenne, un Paese che sia guida dell’Europa, leader dell’innovazione e capace di attrarre talenti e non di cacciarli».

Come spiega il flop di Beppe Grillo? E Berlusconi è politicamente finito?
«Guai a pensare che Grillo e Berlusconi siano finiti. L’Italia è capace di tutto nel bene e nel male, è un Paese di genialità e follia allo stesso tempo. Grillo ha avuto un risultato decisamente inferiore alle aspettative, ha nascosto ai suoi che aveva già fatto alleanze internazionali e ha tenuto nascosti anche i nomi dei propri candidati. Però non è finito: finirà se noi faremo le riforme e se saremo credibili . Berlusconi è Berlusconi, ha preso circa il diciassette per cento, un risultato che in Europa molti continuano a definire inspiegabile. Ma è il risultato di un uomo che in questo anno ha avuto una condanna, polemiche a go-go, si è separato da alcuni tra i suoi più stretti collaboratori e comunque continua ad esserci. Io non ignoro nessuno, perché è stato sbagliato in questi anni quell’atteggiamento della sinistra di superiorità morale e intellettuale, tipico dei salotti radicai chic. Ma non ho paura di nessuno. Ora dobbiamo solo avere la forza di fare le riforme».

L’intervista è stata realizzata insieme a Andrea Bachstein (Suddeutsche Zeitung), Lizzy Davies (The Guardian), Philippe Ridet (Le Monde) e Pablo Ordaz (El Pais)

Chi è Corrado Clini, l'ex ministro arrestato. Ecco il ritratto pubblicato su "l'Espresso" nel 2012

Corrado Clini
Corrado Clini

Ritratto di Emiliano Fittipaldi per “l’Espresso” settembre 2012

Corrado Clini è un vecchio socialista e sa, come gli ha insegnato il suo maestro Gianni De Michelis, che del politicamente corretto bisogna diffidare. Anzi: fregarsene. «La Tav si deve fare, il Ponte di Messina sarebbe un’opera bellissima, il nucleare a certe condizioni mi va bene, gli Ogm sarebbero utili», ha chiosato appena nominato ministro dell’Ambiente. Distillando nei mesi successivi altre pillole che hanno fatto rabbrividire i verdi duri e puri. «Le grandi navi? Continueranno a entrare nella Laguna di Venezia, non ci sono altre soluzioni praticabili. L’Ilva? I rischi da considerare sono quelli dei decenni passati.

Il protocollo di Kyoto? Non è uno strumento adatto per combattere la CO2». Parole che in bocca ai suoi predecessori avrebbero scatenato un pandemonio, ma se enunciate da lui, il supertecnico voluto da Mario Monti, trovano adepti persino tra le associazioni green.
«Chi è Clini? Uno degli uomini più potenti del governo.

È stato direttore generale del ministero dal 1989 al 2011, la storia della sua carriera è parallela alle drammatiche vicende ambientali di questo Paese, ma difficilmente troverà qualcuno che ne parli male», racconta Fabrizio Fabbri, ex Greenpeace, che l’ha conosciuto quando era capo della segreteria dell’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio.

«Nel 2008 tentammo di sostituirlo, dimostrò di avere robusti appoggi politici e perdemmo la partita. Col tempo scoprimmo che aveva costruito una rete di relazioni importanti non solo in Italia, ma in tutto il mondo. In Cina e nei Balcani è il regista di una diplomazia parallela a quella del ministero degli Esteri. È capace, preparato, ambizioso. L’obiettivo principale di Clini? È Clini».

TRA MARGHERA E DE MICHELIS. Ventitré anni consecutivi al potere, il ministro che adora Freddy Mercury è tra i pochi boiardi sopravvissuti alla fine della Prima Repubblica. Per raccontare la sua ascesa bisogna partire dall’inizio. Nato a Latina 65 anni fa, faccia da attore e una laurea in medicina a Parma, il giovane Corrado si trasferisce a Venezia all’inizio degli anni ’70. Operaista cattolico, diventa direttore del servizio di igiene e medicina del lavoro della Usl e si batte per la salute degli operai di Marghera.

Pietro Comba, epidemiologo di fama, lo ricorda così: «Abbiamo lavorato molto bene insieme al suo staff». «Era abile, intelligente e preparato, a Marghera ha fatto seriamente il suo lavoro», aggiunge Massimo Cacciari: «È la sua carriera al ministero che critico e ho criticato, visto che si è sempre svolta in ossequio ai potenti di turno. Quando ero sindaco non mi ha mai dato una mano su nulla: nessuna polemica con l’Eni, nessun aiuto quando chiedevamo al governo due lire per le bonifiche. Il Mose? Non è un segreto che lui sia un entusiasta sostenitore del progetto».

Clini si sposa, diventa padre di quattro figli, compra casa a Merano, comincia a curare il vestiario e a frequentare il giro di De Michelis. Le serate in discoteca cementano l’amicizia e la militanza socialista: diventa inseparabile compagno di Renato Brunetta e Maurizio Sacconi, conosce Franco Frattini e Letizia Moratti. Sono sponsor che pesano: nel 1984 viene eletto all’assemblea nazionale del Psi, nel 1987 il neo ministro dell’Ambiente, Giorgio Ruffolo, lo chiama a Roma come responsabile dell’ufficio studi. Nel 1989 deve gestire lo smaltimento dei rifiuti tossici della nave Jolly Rosso, inceneriti (nonostante le proteste di Legambiente che sospetta la presenza di uranio) nell’impianto della Monteco. Pochi mesi dopo è promosso direttore generale del dicastero.

AMBIENTE E AZIENDE. Clini sa come farsi voler bene da tutti. Il suo contratto è rinnovato sotto governi di ogni forma e colore. Con Ciampi, Amato, Berlusconi e Prodi tiene le deleghe su questioni cruciali come la qualità dell’aria, le emissioni degli impianti industriali, le industrie a rischio. La sua linea è chiara: le aziende non vanno combattute come fossero nemici, ma l’ambiente va protetto attraverso uno sviluppo che sia «sostenibile».

Una posizione da “ambientalista liberista”, dice qualche suo detrattore che lo avrebbe visto meglio al ministero dell’Industria. Nel 1995, mentre celebrava l’Enel capace «di investire 20 mila miliardi (di lire, ndr) per abbattere le emissioni e far crescere la qualità» entra in polemica con Greenpeace, che denunciava collegamenti tra la presenza di diossina nella Laguna e il petrolchimico di Marghera.

«Non bisogna criminalizzare le aziende che abbiamo anche costretto a investire miliardi nel disinquinamento», spiegò. Pochi mesi dopo i magistrati sequestrarono gli impianti, proprio per la presenza dei veleni. Clini elabora per primo i piani di risanamento di Brindisi, Taranto, Priolo e Gela (nel 1994 annunciò finanziamenti per 650 miliardi di lire, di cui una grande percentuale pubblica) e Piombino, ma i lavori di bonifica – che, va detto, erano di stretta competenza della direzione comandata dall’altro dominus del ministero, il suo rivale Gianfranco Mascazzini – sono rimasti spesso solo sulla carta.

IL DOPO KYOTO. Ottimi rapporti con Confindustria, eccellenti con le associazioni ambientaliste (che ricevono finanziamementi anche dal ministero) e con i partiti di destra e sinistra, Clini spicca il volo nel 2001, quando Berlusconi rimette all’Ambiente Altero Matteoli. Tra loro c’è un asse di ferro e Corrado aggiunge alle deleghe della “protezione internazionale dell’ambiente” quelle per lo sviluppo delle energie rinnovabili in Italia.

È sulle prime che concentra maggiormente l’azione dei suoi uffici. Capisce che il protocollo di Kyoto (che lui avrebbe voluto più flessibile per accontentare gli Usa: per i maligni non è un caso che l’ambasciata americana lo consideri, come si legge in un file di WikiLeaks, «il nostro migliore amico al ministero») e il mercato internazionale delle quote di CO2 possono diventare un’opportunità.

Per le aziende italiane, e per le sue ambizioni personali. Il protocollo permette infatti ai Paesi industrializzati che hanno vincoli di emissione di realizzare nei Paesi in via di sviluppo progetti per ridurre i gas serra: in questo modo le imprese italiane possono fare business e contemporaneamente guadagnare crediti nella borsa mondiale delle emissioni. Certificati che possono essere scontati sia per rispettare gli impegni di Kyoto sia venduti sul mercato.

Un’operazione spesso conveniente: intervenire sugli impianti che inquinano in Italia è in media molto più costoso che aprire una discarica verde o piantare alberi nel Terzo mondo. «L’effetto serra ha un impatto globale, e abbattere i gas all’estero per il clima ha lo stesso identico risultato, se non meglio, che farlo dentro i confini nazionali», chiosa lui. «Inoltre la cooperazione internazionale rappresenta per l’Italia un obbligo, non una scelta».

TRA CINA E BALCANI. L’ex socialista, che guadagna circa 200 mila euro l’anno e dichiara di possedere solo una Fiat 500, punta sui paesi della ex Jugoslavia e sulla Cina, e crea due progetti di cui pochi, in patria, conoscono l’esistenza: il “Sino-italian Cooperation Program” e la “Task-Force Central and Eastern Europe”(i siti Internet, solo in inglese, non sono linkati su quello del ministero. «Strano, provvederò subito», commenta il ministro).

Il primo gestisce dal 2000 due uffici a Pechino e Shanghai, pagati dal ministero dell’Ambiente e dall’Ice con personale italiano (quasi tutti esperti esterni al ministero) e un gran viavai di imprenditori e politici cinesi che pianificano iniziative di cooperazione e investimenti per milioni di euro. Nel 2004 Clini lancia poi la “Task Force” europea con sede a Belgrado e l’intento di offrire opportunità di investimento alle aziende in Serbia, Montenegro, Macedonia e Albania, ma progetti speciali vengono realizzati anche in Belize, Libia e Marocco.

A capo della struttura (anche qui la gran parte dei dipendenti sono co.co.co.) il direttore generale sceglie di piazzare la sua nuova compagna Martina Hauser. Triestina doc, classe ’68, oggi fa un doppio lavoro: prende lo stipendio come consulente del ministero («I ragazzi hanno bisogno ancora di lei, è una grande esperta in materia ambientale», spiega il ministro) sia come assessore allo Sviluppo sostenibile a Cosenza.

Se qualcuno sostiene che le attività coordinate da Clini non abbiano dato grandi risultati per la difesa dell’ambiente («Figuriamoci, ho realizzato 1.200 progetti avanzati per l’idrogeno, per il telecontrollo del traffico, per l’edilizia ecoefficiente», si difende), di sicuro l’attivismo fuori dai confini nazionali ha potenziato a dismisura la sua rete: è entrato nel board di influenti istituti cinesi, ha incontrato da semplice dirigente i ministri di mezzo mondo, ha stretto rapporti con aziende importanti come Eni ed Enel.

Comincia così ad attirarsi qualche invidia. Romano Prodi e Pecoraro Scanio cercano di cacciarlo, ma a dargli qualche grattacapo saranno solo i comboniani di padre Alex Zanotelli, che criticarono pesantemente la sua decisione, nel 2007, di assegnare 721 mila euro a una società di Napoli (con poche credenziali e rapporti con mercanti di armi, disse il frate) per uno studio di fattibilità relativo alla bonifica di una discarica in Kenya. Indagato dai pm di Roma insieme ai soci della srl, la sua posizione venne poi archiviata.

CONFLITTI DI INTERESSE. Al ministero Clini può contare su una squadra compatta. Il braccio operativo Antonio Strambaci gestisce la cassaforte, la fedelissima Valeria Rizzo è la nuova negoziatrice sul clima, il sottosegretario Tullio Fanelli, laureato in ingegneria nucleare, conosce l’industria italiana come pochi altri. A dargli suggerimenti c’è anche lo spin doctor Paolo Messa, direttore di “Formiche”, ma è la compagna Martina, un tempo moglie del ministro dell’Interno montenegrino Andrija Jovicevic, la sua prima consigliera.

Tanto che lo scorso Natale l’ha voluta vicino a sé al vertice di Durban in Sudafrica. I due si incontrano per lavoro anche all’università Ca’ Foscari di Venezia, dove siedono in un comitato di gestione voluto dal rettore, e spesso in terra calabrese. La triestina nel 2011 si è trasferita nel profondo Sud chiamata dal neosindaco di Cosenza Mario Occhiuto, vecchio amico di Clini e architetto di grido che molto ha lavorato in Cina con il ministero.

Il ministro, che a marzo è andato di persona all’inaugurazione del canile voluto dalla fidanzata, di recente ha firmato con il Comune un accordo da 450 mila euro per lo sviluppo sostenibile di Cosenza. «Identici accordi», spiega lui, «sono stati firmati anche con altri comuni». Tra i quali c’è di sicuro Duino, un paesino vicino Trieste dove la Hauser possiede un appartamento di otto stanze acquistato nel 2009 da una società americana, la Bluberry Llc, che ha trasformato un rudere di tre stanze in una bella villa vista mare.

La casa è di fronte a un porticciolo (dove Clini quest’estate ha ormeggiato il suo motoscafo), che verrà presto riqualificato con i soldi del ministero dell’Ambiente. Già: lo scorso marzo il ministro è volato a Duino e ha promesso che i finanziamenti stanziati nel 2009 (1,6 milioni) arriveranno presto. Serviranno a ripristinare la Costa dei Barbari e il centro del paese. «Non si tratta solo del porticciolo, ma di una fascia costiera che arriva fino a Trieste. Il motoscafo? È lungo poco più di cinque metri, non scherziamo. A Duino io amo andare soprattutto in canoa».

L’arresto di Corrado Clini

Europee, il fronte anti Ue stravince dappertutto. In Italia trionfo di Renzi. Grillo si dice "sconfitto" ma prende oltre il 21%. E gli euroscettici (divisi) sono al 35%.

Marine Le Pen, Nigel Farage e Geert Wilders
Marine Le Pen, Nigel Farage e Geert Wilders

I sintomi della malattia c’erano tutti, eppure politici, banchieri, speculatori e grandi poteri forti hanno ignorato, glissato, fatto finta di niente sul cancro che ha pervaso il vecchio continente. Un malato terminale che la politica europea, speaker di quella nomenclatura, voleva (e forse insisterà ancora) spacciare come l’unica bombola d’ossigeno rimasta per i cittadini oppressi da questa Europa.

Chi opera e specula nel triangolo “maledetto”  (Francoforte, Strasburgo e Bruxelles) – la “zona rossa” dove sono scomparsi destini e speranze di milioni di persone – conosceva da tempo l’esito delle analisi ma ha preferito tacere e non cambiare terapia per non disturbare la quiete “dell’Ancien Régime”.

Con questo storico voto di protesta, i cittadini sono riusciti ad assestare un durissimo colpo agli euroburocrati. Non conquista la “Bastiglia” di Bruxelles, ma con un semplice tratto di matita si è piazzato sulle sue mura pronto alla presa finale se dall’interno non ascoltano le indicazioni del popolo sovrano. Un po’ dappertutto prevalgono i partiti euroscettici.

Al netto della grande astensione che assume un forte valore politico su cui riflettere, si affermano movimenti e partiti antieuro. In Francia il Front National di Marine Le Pen è il primo partito col 25,5%: un vero e proprio “terremoto” che sta facendo tremare i palazzi che contano nell’eurozona. In Gran Bretagna, paese fondatore che non adotta l’euro, l’Ukip di Nigel Farage è il trionfatore assoluto.

In Grecia avanzano Tsipras e Alba dorata, mentre in Olanda è ottima l’affermazione del Pvv di Geert Wilders. In Germania i veri vincitori della tornata elettorale sono gli antieuro di Alternative fuer Deutschland, (la Merkel cala ma tiene). L’Fpoe di Heinz Christian Strache in Austria supera ogni aspettativa e in Polonia si registra un boom degli euroscettici del Knp di Janusz Korwin Mikke e un ritorno trionfale dei nazionalisti Pis di Jarosław Kaczyński (da ricordare che i gemelli Kaczyński subirono una campagna denigratoria dall’establishment Ue proprio per le loro posizioni antieuropeiste. Nel 2010 Lech Kaczyński, presidente della Repubblica in carica morì in uno “strano” incidente aereo a Smolensk, Russia, mentre si recava per l’anniversario dell’eccidio di Katin). In Danimarca boom dell’estrema destra del Danish People Party. Insomma, uno tzunami elettorale straordinario registrato anche in altri paesi europei dove il fronte degli scettici esonda vistosamente dagli argini dell’austerity.

In Italia sconfigge i sondaggisti e va oltre ogni previsione Matteo Renzi che col “suo” Pd “rinnovato” viene largamente premiato con oltre il 40%. Il Movimento Cinquestelle di Beppe Grillo (nel video l’ammissione della “sconfitta”, sebbene di sconfitta non si possa parlare (suggerito male?) non avendo precedenti nel 2009 ma solo un riferimento alle politiche del 2013 che sono tutt’altra elezione in cui la percentuale di astensione è stata di gran lunga inferiore…) prende oltre il 21% portando a Strasburgo ben 17 europarlamentari. Un dato eccezionale (altro che sconfitta!) per essere la seconda competizione, l’ultima con quasi il 43% di astensione e con un voto esclusivamente “d’opinione”. Se a questo si somma il dato che i grillini prendono più voti di Le Pen, Farage e altri, si deve parlare di risultato “storico”. Sul piano delle “aspettative”, è una riflessione post-voto che va relegata alla propaganda elettorale durante la quale i partiti annunciano le cose più bizzarre. Entrando nel merito di questa propaganda Grillo evidentemente “paga” lo scotto di una comunicazione discutibile, una posizione anti Ue non molto chiara, una impostazione “superficiale” e troppo “qualunquista” della campagna. Fattori cui va sommato l’attacco denigratorio senza precedenti che ha fatto presa su alcune fasce di elettorato. Ribadiamo l’eccezionalità del risultato del M5S che senza la sua presenza sarebbe in gran parte confluito nel bacino del “non voto”.

Premiati invece su posizioni nettamente anti euro la Lega Nord di Matteo Salvini (oltre il 6 percento) e Fratelli d’Italia – An, che non supera la fatidica soglia del 4 (3.8%). A questi occorre aggiungere la sinistra di Niki Vendola che per il greco Tsipras, leader fortemente critico con il modello economico europeo, racimola oltre il 4 percento. Un voto complessivo di protesta anti Ue che in Italia, al contrario di Francia e Gran Bretagna, è abbastanza frammentato, mentre se aggregato supera il 35%. Al netto del deludente quanto previsto 16 percento di Forza Italia che ha pure improntato una campagna elettorale (va riconosciuto, scarsamente credibile) su una revisione dei trattati internazionali.

Dunque, se è vero che lo scettro della vittoria in Italia l’ha conquistato Matteo Renzi – che porta ossigeno vitale ad uno spompato S&D – è altrettanto vero che in Italia il voto euroscettico prevale e strasborda se sommato alla non partecipazione dei delusi. Vedremo nel breve periodo se Renzi è capace di capitalizzare questo voto di “maturità e responsabilità” e di incidere profondamente per cambiare “da dentro” l’Europa, oppure è soltanto l’ennesima illusione della politica inconcludente, (diciamo per inciso che su questo blog siamo stati fra i primi a tifare per lui quando da solo ha affrontato i “colossi” ai vertici del Pd che lo deridevano e ridicolizzavano. Gli stessi che nel giro di un anno sono diventati tutti “renziani”…). Detto questo si spera davvero per il bene dell’Italia che il premier, legittimato da questo voto, faccia valere gli interessi dell’Italia e, perché no, contribuisca a “rottamare” vecchi tromboni e burattinai che si annidano ancora a Bruxelles.

Ad ogni modo – a prescindere dal voto italiano – saranno Francia, Austria e Inghilterra (ma pure la Germania di Angela Merkel) a imporre all’élite del triangolo “maledetto” una nuova cura per il malato terminale chiamato Europa. La volontà popolare ha tracciato bene la nuova rotta da seguire e questa volontà, chiara e indiscutibile, è e deve essere più forte di qualsiasi establishment, lobby o potentato affaristico e finanziario.

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