5 Ottobre 2024

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Marco Pantani «fu ucciso». Le analogie col caso Bergamini

Marco Pantani“Il 14 febbraio 2004 Marco Pantani non si suicidò, ma fu ucciso”.

E’ questa la clamorosa svolta giudiziaria a dieci anni dalla morte del “Pirata”. Il fuoriclasse di Cesenatico non era solo in quella maledetta camera d’albergo, ma insieme a persone ancora non identificate. Persone che forse conosceva che lo avrebbero prima picchiato e poi costretto a bere cocaina. E’ quanto emerge dall’inchiesta della Procura della Repubblica di Rimini che ha riaperto il caso. A darne notizia e particolari “La Gazzetta dello Sport” e “La Repubblica” oggi in edicola.

La prima pagina della Gazzetta dello Sport dedicata al caso Pantani
La prima pagina della Gazzetta dello Sport dedicata al caso Pantani

Secondo quanto appreso dal quotidiano sportivo non si sarebbe trattato di suicidio, ma Marco sarebbe stato ucciso. Per la procura si tratta di “omicidio con alterazione del cadavere e dei luoghi”. Ad avallare questa tesi una perizia medico legale eseguita per conto della famiglia dal professor Francesco Maria Avato (il calabrese che ha  fatto riaprire il caso Bergamini) in cui si evidenzia come “le ferite sul corpo di Marco Pantani non sono autoprocurate, ma opera di terzi”.

Pantani dunque non morì per un’overdose, ma venne ammazzato. Il ciclista sarebbe stato picchiato da due uomini, a cui Pantani avrebbe aperto la porta del bilocale del residence Le Rose di Rimini. Poi fu costretto a bere una miscela con cocaina  purissima.

Questa ipotesi spiegherebbe le grandi quantità di stupefacenti che furono trovate nel corpo del campione romagnolo. “I genitori – scrive la Gazzetta – non hanno mai creduto all’ipotesi del suicidio, la mamma Tonina Belletti lo ha ribadito in tante circostanze e interviste, ha presentato esposti assistita dall’avvocato Antonio De Rensis, e ora la Procura ha riaperto il caso.

“Sulla morte di Marco ho ancora tanti dubbi che vorrei fossero chiariti”, aveva detto la mamma in una recente intervista. “Ho letto i faldoni del Tribunale e ci sono scritte cose non vere. Marco non era solo nel residence; con lui potevano esserci più persone. Ha chiamato i carabinieri, parlando di persone che gli davano fastidio, e dopo un’ora è stato trovato morto.

I fatti raccontati da Gazzetta dello Sport

Il residence dove è stato trovato morto Marco Pantani
Il residence dove è stato trovato morto Marco Pantani

I FATTI NUOVI — Tutto questo lavoro è stato poi assemblato in un esposto presentato la scorsa settimana alla Procura di Rimini, che ha competenza sull’accaduto. La richiesta era: riaprire il caso sulla base dei molti fatti nuovi contenuti nelle pagine dell’istanza. Con una conclusione shock: omicidio e alterazione del cadavere e dei luoghi. La risposta è arrivata in tempi brevi (segno che le ipotesi sono state considerate talmente credibili da meritare tutti gli approfondimenti possibili e quindi nuove indagini): caso riaperto e ipotesi di omicidio volontario a carico di ignoti. Il fascicolo è stato assegnato dal procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, a un pubblico ministero titolare: Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore, arrivato a Rimini da pochi mesi. Toccherà a lei far luce su quello che è accaduto il 14 febbraio 2004 all’interno del residence Le Rose.

GLI ULTIMI MINUTI — Lo scenario prospettato è da brividi: gli ultimi minuti di una vita intensa il Pirata li passa in una stanza d’albergo, ma non è da solo, come fino a oggi ha affermato la verità processuale, e in preda alle allucinazioni per l’overdose letale di cocaina. Le cose sarebbero andate in modo completamente diverso: Pantani avrebbe aperto la porta al suo assassino (o agli assassini), lo conosceva, forse si fidava. Ma presto la situazione sarebbe diventata incontrollabile. Per ben due volte il romagnolo chiama la reception, chiedendo addirittura l’intervento dei carabinieri (un doppio Sos prima ignorato e poi sottovalutato), circostanza appurata anche 10 anni fa. La lite verbale sarebbe presto degenerata, sfociando in un’aggressione. Pantani potrebbe essere rimasto ferito in più punti del corpo, prima di soccombere: stordito, sarebbe diventato una preda facile.

LA BOTTIGLIA SEMIVUOTA — Manca solo il colpo finale. Chi lo pensa non è uno sprovveduto: avrebbe sciolto la cocaina nell’acqua contenuta in una bottiglia per poi far bere al Pirata la dose mortale con un bicchiere. Una bottiglia semivuota che resta nella stanza: la si vede chiaramente nel filmato girato nel 2004 dalla polizia. Solo che quella bottiglia non è stata mai analizzata, così come incredibilmente non furono prese le impronte digitali in tutto l’ambiente nonostante la presenza di un cadavere eccellente riverso in una pozza di sangue e di una stanza rivoltata come fosse stata travolta da un uragano. Ma torniamo indietro: la morte del ciclista risale a molto prima dell’ora di pranzo, ma è “scoperta” con gli italiani a cena. Un tempo lungo e pieno di ombre, ore di buco che avrebbero permesso in tutta calma l’alterazione della camera presa in alloggio dal Pirata, in modo da simulare un delirio post assunzione di stupefacenti. Insomma, un depistaggio per celare l’omicidio.

LA STORIA DEI GIUBBINI — Questa era l’ipotesi contenuta nell’istanza presentata da una mamma (Tonina) e un papà (Paolo) che da sempre chiedevano giustizia per il figlio. Emblematica è la storia dei tre giubbini da sci trovati all’interno della stanza di Pantani. Di cosa stiamo parlando? Il Pirata arriva a Rimini senza bagaglio: con sé ha solo una sportina con dentro le medicine (quelle che prenderà anche la mattina del 14), due magliette, l’occorrente per fare la barba e un borsello con soldi e documenti. Nessuna valigia, trolley o borsa. Un fatto confermato, anche all’epoca delle indagini, da quattro persone che non si conoscono. I giacconi sono certamente di Pantani: li va a prendere a casa sua il 26 gennaio. In quei giorni aveva deciso di andare a sciare con il marito della Ronchi (la sua ex manager). Per questa ragione torna a Cesenatico e si fa aiutare dalla mamma a fare la valigia: “Vado in montagna qualche giorno”, le dice. Ma poi si limita a prendere tre giubbotti, molto pesanti. “Le altre cose le noleggio sul posto” risponde Marco all’obiezione stupita della madre per i pochi indumenti presi.

marco pantaniIl 31 gennaio, Pantani a Milano ha una lite con la Ronchi e i genitori arrivati dalla Romagna dopo una chiamata allarmata della donna. E’ l’ultima volta che vedrà la mamma e il papà. Marco scappa e si rifugia in un hotel dalle parti di piazza Repubblica. Non ha valigie, tantomeno tre ingombranti giubbotti. Il 9 febbraio decide di andare a Rimini. La Ronchi gli fa recapitare la sportina in albergo a Milano con le medicine, le magliette e la schiuma da barba. E’ il “bagaglio” caricato dentro il taxi che lo condurrà fino in Romagna. E allora come ci sono arrivati nella stanza i tre giubbotti? Uno di questi (vistoso e molto pesante) è appeso fuori dall’armadio con la sua gruccia: lo si vede anche nel video della polizia. Qualcuno li ha portati fino a Rimini. Sarebbe stata una domanda da porsi 10 anni fa e invece nulla. Una domanda che mamma Tonina ha ripetuto con ossessione, lo ha persino urlato durante una udienza del processo a Carlino e lo ha ribadito di recente nel libro scritto sul figlio (In nome di Marco, edito da Rizzoli). L’esposto ha riproposto il quesito in modo ineludibile: le nuove indagini serviranno a dare risposte. Certo, questo passo getta di riflesso una luce inquietante sulla morte, a soli 34 anni del campione di Cesenatico.

I TANTI INTERROGATIVI — Le indagini svolte all’epoca (chiuse in poche settimane) e il successivo processo avevano portato alla conclusione più semplice: Pantani stroncato da una overdose di cocaina, i pusher accusati di spaccio di droga e omicidio colposo. E invece pochi giorni dopo la vittoria al Tour de France di Vincenzo Nibali, è ancora il giallo il colore d’attualità. Solo che in palio non c’è una maglia prestigiosa, ma la ricerca di una verità diversa da quella raccontata nel 2004.

Che cosa è accaduto in quel maledetto 14 febbraio? Chi e come avrebbe portato Pantani sull’ultimo traguardo? Come mai, nonostante una serie d’incongruenze, gli inquirenti non presero in considerazioni altre ipotesi, etichettando da subito il caso come “morte per overdose”? Si parte da qui, ma questa volta la strada non è più in salita. Fonte: gazzetta.it

Nella sua stanza sono stati trovati alcuni giubbotti che aveva lasciato a Milano, dal momento che, quando era arrivato in quell’albergo, non aveva bagaglio.

Chiedo la riapertura del processo perchè voglio spiegazioni, ricevere risposte. Secondo me Marco aveva pestato i piedi a qualcuno, perchè lui quello che pensava diceva: parlava di doping, diceva che il doping esiste”. “Marco non tornerà mai – aggiungeva, tutt’altro che rassegnata – ma io aspetto ancora la verità, su Rimini come su Madonna di Campiglio (quando il ciclista fu fermato al Giro ’99 per valori ematici fuori norma)”. Il 10 novembre di tre anni fa la Cassazione aveva assolto “perchè il fatto non costituisce reato” il presunto pusher di Pantani, imputato di averne provocato la morte con la vendita di cocaina purissima”.

La prima pagina di Repubblica
La prima pagina di Repubblica

Secondo la ricostruzione dell’avvocato De Rensis “Pantani avrebbe aperto la porta al suo assassino (o agli assassini), lo conosceva, forse si fidava. Ma presto la situazione sarebbe diventata incontrollabile. Per ben due volte il romagnolo chiama la reception, chiedendo addirittura l’intervento dei carabinieri (un doppio Sos prima ignorato e poi sottovalutato), circostanza appurata anche 10 anni fa. La lite verbale sarebbe presto degenerata, sfociando in un’aggressione.

Pantani potrebbe essere rimasto ferito in più punti del corpo, prima di soccombere”. L’assassino, coi probabili complici, avrebbe sciolto una dose mortale di cocaina nell’acqua contenuta in una bottiglia e gliel’avrebbe fatta bere con un bicchiere, poi avrebbe alterato la scena per coprire l’omicidio. La bottiglia resta nella stanza ma non è mai stata analizzata, e al tempo non furono nemmeno prese tutte le impronte digitali.

Alla notizia della riapertura delle indagini Davide Cassani, ct della nazionale azzurra di ciclismo, commenta all’Adnkronos: “Credo che soprattutto per la famiglia sia importante capire cosa è realmente successo. Conoscere la verità fa bene a tutte le persone che vogliono bene a Marco Pantani”. “Sarebbe bello conoscere la verità su quanto accaduto – continua Cassani – se è diversa rispetto a quella che ci hanno raccontato in questi 10 anni. Ho letto i giornali, se la procura ha riaperto il caso vuol dire che ci sono delle basi su cui approfondire”.

"OMICIDIO" Denis Bergamini
“OMICIDIO” – Donato “Denis” Bergamini

La riapertura del caso Pantani riporta alla memoria la drammatica storia di Donato “Denis” Bergamini, centrocampista del Cosenza Calcio morto in circostanze misteriose sulla statale jonica a Roseto Capo Spulico il 18 novembre 1989. L’analogia è forte tra i due casi. Per 24 anni, ammantati da una coltre sospetta di omissioni, era stata accreditata la teoria del suicidio ma né i tifosi della squadra rossobù né la famiglia del calciatore hanno mai creduto a questa versione dei fatti.

In seguito alle pressioni dei parenti di Denis – forti di una perizia medico legale del professor Francesco Maria Avato, lo stesso che oggi ha nei fatti dato una svolta al caso Pantani – la procura di Castrovillari lo scorso anno riaprì il fascicolo con l’ipotesi di “omicidio”.

Tesi sostenuta pure dall’acquisizione di nuovi elementi che hanno portato all’iscrizione nel registro degli indagati dell’ex fidanzata Isabella Internò e dell’autista del Tir sotto cui è stato ritrovato esamine il corpo del giovane calciatore del Cosenza.

PATOLOGO Francesco Maria Avato
Francesco Maria Avato

Chi è Francesco Maria Avato

Classe 1946, coniugato con due figli, Avato è nato a San Demetrio Corone, grazioso borgo in provincia di Cosenza. Da anni trasferitosi al Nord, vanta numerose esperienze universitarie nel campo biomedico e patologico.

Dopo la laurea in medicina e chirurgia a Pavia ha prodotto numerose pubblicazioni scientifiche. Oggi è docente ordinario presso il Dipartimento di Scienze Biomediche e Terapie Avanzate (Sezione di Medicina Legale e delle Assicurazioni) all’università di Ferrara, la stessa città di origine dello sfortunato calciatore.

A Rocco Siffredi piace Maria Elena Boschi. Mai dire mai. Sarebbe la favola del secolo

Rocco Siffredi
DIVO Rocco Siffredi

“Vorrei morire sul set, sul corpo di una donna”. E’ questa la confessione che l’attore e produttore hard, Rocco Siffredi ha affidato a “La Zanzara” su Radio 24 a pochi giorni dal suo cinquantesimo compleanno. “Sarebbe una bella morte – dice Siffredi – ed è una cosa che sento da sempre. Probabilmente ci lascerò le penne sul corpo di una donna. Per fare una battuta: morirò soffocato da una patata bollente”.

“Ma con quante donne sei stato in tutto?”, chiede Cruciani conduttore della nota trasmissione radiofonica. “Facendo un calcolo – risponde l’attore a luci rosse – credo poco più di cinquemila, tra quelle documentate dalle telecamere e quelle in privato. Faccio quello che ho sempre voluto fare nella vita, anche se diventa sempre più faticoso e difficile.

Maria Elena Boschi
AFFASCINANTE Maria Elena Boschi

Le donne sono più esigenti, si girano scene da 4-5 ore e io non uso rinforzino (il viagra, ndr). E ancora Cruciani: “Come festeggerai i tuoi 50 anni? “Ho organizzato un film, “I miei primi 50 ani” (con una sola ‘n’, ndr). Non è facile da realizzare, ma ci provo. Non mollo”.

Poi Rocco parla dell’affascinate ministra delle Riforme Maria Elena Boschi. “Ho letto che cerca marito. Ma come fa una topa del genere a non avere un uomo?”, si chiede. La bella ministra, dice, “dovrebbe avere la fila. Ha una faccia pulita, bella, carina. Quelle che piacciono a me”. Quelle che piacciono a lui…. La titolare delle Riforme è la sua Tipa, non topa come quelle che ha frequentato finora…Quasi un invito a cena per la bellissima Maria Elena che ha mostrato non soltanto curve mozzafiato ma anche intelligenza e una buona capacità nei rapporti politici.

Rocco Siffredi
SICURO Rocco Siffredi

Nella telefonata con “La Zanzara” Siffredi svela il dietro le quinte nel mondo hard: “Quando faccio il casting per un film e mi dicono “io sono una che faccio di tutto” e hanno la faccia da maiale io non le prendo mai”.

Un pensierino per la Boschi? Non certamente per un film del tipo.., s’intuisce dalle sue parole, ma per una storia d’amore magari sì. Mai dire mai. Del resto Siffredi si è per dire emancipato da quel mondo visto con tanto imbarazzo dalla borghesia ipocrita (la stessa che poi procaccia i suoi film in modo “clandestino”…).

Maria Elena Boschi
DONNA IDEALE Maria Elena Boschi

Rocco va in Tv, rilascia interviste, viene riconosciuto per strada e firma autografi, fa volontariato e tra poco, se non lo fa già, lo chiameranno nelle scuole a insegnare ai ragazzi le forme di prevenzione e l’approccio giusto al mondo del sesso.

Maria Elena Boschi
POLITICA Maria Elena Boschi

E’ diventato insomma una star con le qualità dell’uomo di coppia, o meglio, di famiglia. Quindi, chissà! Per Maria Elena – la donna più desiderata dagli italiani – potrebbe essere l’uomo ideale per l’inizio di una favola straordinaria che potrebbe portare dritto all’altare. Forse. Sarebbe la favola del secolo di cui parlerebbero anche gli aliens. Certamente Rocco non parlerà più di morire “sul corpo” di una donna ma “accanto alla mia donna”.

Testimoni di nozze? Matteo Renzi e Suor Cristina. Perché no! Rocco ha lanciato il petalo di rosa alla dolce ministra. Sta a Maria Elena raccogliere l’eplicito messaggio del divo. Da cosa nasce cosa… A patto, però, direbbe lei, “di una sua conversione dal cinema hard alla politica…” Rigorosamente renziana e Pd. E chissà se Bruno Vespa un giorno non li faccia incontrare nella sua terza Camera…

Eredità da due miliardi di lire. Ma non riesce a incassarli per colpa di Monti. L'assurdo caso di Sara Ferrari

TesoroSara Ferrari, una donna di Rovigo, eredita un tesoro ma una leggina del supertecnico Monti le impedisce di incassarli. Ha trovato a Berlino due miliardi del vecchio conio (un milione di euro) in una cassetta di sicurezza intestata allo zio paterno defunto, ma Bankitalia non può convertirli per via del decreto “Salva Italia” che nel 2011 è entrato in vigore e negli anni successivi ha precipitato il paese.

Vittima dell’inghippo beffardo firmato dai tecnici scelti dai banchieri di Francoforte e Napolitano, è appunto Sara Ferrari, 43 anni di Rovigo, ma residente da molti anni a Bruxelles, dove lavora come funzionario di un ente pubblico. Quella legge (anticostituzionale) ha in sostanza “regalato” all’Erario tutte le vecchie lire ancora in circolazione e in possesso di ignari anziani che evidentemente poco si fidavano dell’euro, la nuova moneta che doveva “salvare” l’Europa e invece ha ridotto alla fame milioni di persone.

BotNon si poteva fare perché è un attacco frontale alla proprietà privata sancita dalla Costituzione, (art. 42) ma lui, il professorone della Bocconi, è andato avanti senza guardare in faccia nessuno. La moneta in possesso di un privato è da considerarsi “proprietà privata” a tutti gli effetti e come tale va garantita secondo la Carta. Non può essere “sottratta” o “espropriata”, anche perché in questo caso non c’è l’interesse generale dello Stato, il cui principio s’introduce solo salvo indennizzi: parliamo di terreni per opere strategiche e via dicendo. E  non è questo il caso.

A dirla tutta è anche incostituzionale quel “regolamento” di Bankitalia che sanciva il limite temporale di dieci anni per convertire le lire in euro poiché, anche se fuori corso, è da considerarsi un bene come l’Oro, come un immobile, come un terreno. Quei miliardi ereditati dalla signora Ferrari hanno pertanto “valore” a tutti gli effetti come una casa, un fabbricato o titoli di Stato. Un valore acquisito col duro lavoro del parente defunto che non può essere confiscato (di confisca si tratta) per legge, salvo reati di illecito arricchimento.

IL RACCONTO
“Mio zio paterno Salvatore – racconta Sarà al Corriere della Sera – emigrò molti anni fa a Berlino, dove si fece valere per la sua bravura come orafo. Lo zio è morto alcuni mesi fa, celibe e senza figli. Riordinando una delle case che mi ha lasciato in eredità ho trovato alcuni documenti che facevano riferimento a una cassetta di sicurezza aperta molti anni prima dallo zio in una filiale della Deutsche Bank di Berlino”.

IL TESORO
“Al suo interno c’erano alcuni Bot del Tesoro italiano con tagli da 10, 50 e 100 milioni di vecchie lire oltre a denaro contante per un miliardo e 450 milioni in banconote da 500 mila lire oltre a circa un milione di marchi tedeschi”. [flagallery gid=7]. Invece, “per il cambio dei marchi sono bastati appena 10 giorni: 730mila euro, che la banca tedesca le ha convertito sull’unghia.
Ma allo sportello Bankitalia di Milano si è sentita calata in un’altra realtà.

LA SORPRESA
“Mi è stato risposto che in base al decreto Monti del 6 dicembre 2011 le vecchie lire ancora in circolazione si prescrivono a favore dell’Erario con decorrenza immediata e che il relativo controvalore è versato all’entrata del bilancio dello Stato per essere assegnato al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato”.

L’AMAREZZA
“Da italiana che vive all’estero da molti anni non posso non far notare che in Germania ci son voluti dieci giorni per ottenere valuta corrente dai vecchi marchi, e si parla della bella somma di 730 mila euro, mentre nel mio Paese non è possibile altrettanto. Nonostante si chiami Unione Europea le leggi non sono uguali per tutti i cittadini”.

In conclusione, quei soldi sono per Sara solo carta straccia. Lo sono per lei ma non per lo Stato che ha confiscato il denaro e “paradossalmente” riesce a convertirlo e farne ciò che ritiene. Ma Sara Ferrari annuncia battaglia: avvierà azioni legali contro Bankitalia e il ministero delle Finanze. E se non basta, farà ricorso anche alla Corte Europea per ottenere ciò che le spetta.
Noi tifiamo per lei.

Da Messina a Parigi, Vincenzo Nibali sale sul tetto del mondo

La premiazione di Nibali a Parigi
La premiazione di Nibali a Parigi

Sedici anni dopo Marco Pantani un italiano sale sul podio più alto della corsa a tappe più prestigiosa del mondo. Il siciliano Vincenzo Nibali vince la 101/a edizione del Tour de France, diventando il sesto ciclista ad aver vinto i tre grandi giri (Giro, Tour e Vuelta) dopo Eddy Merckx, Jacques Anquetil, Felice Gimondi, Bernard Hinault e Alberto Contador. Vincitore di 4 tappe, Nibali ha preceduto in classifica i francesi Jean-Christophe Peraud (a 7’52”) e Thibaut Pinot (a 8’24”). Al tedesco Kittel la 21/a e ultima tappa, Evry-Parigi (137,5 km).

Grande festa a Messina, città natale di “Enzo”, ma pure a Mastromarco, piccola frazione del comune di Lamporecchio, in provincia di Firenze dove “lo Squalo” si è trasferito a soli sedici anni. Un entusiasmo che ha coinvolto tutta l’Italia sportiva e in particolare gli appassionati di ciclismo. Immediate le reazioni del mondo politico e istituzionale.

Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha espresso le sue “congratulazioni a Vincenzo Nibali per l’importante vittoria e per la grinta e l’energia dimostrate dando onore allo sport italiano. Spero di potermi prossimamente complimentare di persona con lui e con gli altri azzurri che, a cominciare dalle campionesse di tennis e scherma, hanno raggiunto in questi ultimi tempi grandi successi”.

Grande festa a Messina in casa Nibali
Grande festa a Messina in casa Nibali

Messaggi anche dal premier Renzi che approfitta per redarguire i francesi, che nei giorni scorsi avevano polemizzato sul passaggio del relitto della Concordia al largo della Corsica: “Devono fidarsi di noi. Chiamerò Hollande e gli dirò di non essere preoccupato per come lavorano gli italiani” con chiaro riferimento al Tour vinto dal siciliano proprio nella “sua” Parigi. Anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e ministro per gli Affari regionali con delega allo Sport Graziano Del Rio ha salutato l’impresa del messinese con un tweet: “Immenso Nibali, sotto il grande campione un uomo con la faccia pulita”.

I genitori Giovanna e Salvatore Nibali con il figlio Enzo
I genitori Giovanna e Salvatore Nibali con il figlio Enzo

Vincenzo Nibali ha festeggiato in discoteca con la famiglia, amici e compagni la vittoria al Tour de France. Arrivando nel locale, il corridore si è rivolto ai cronisti e sorridendo ha detto: ”Il tempo di andare in albergo, farsi una doccia, cambiarsi e siamo di nuovo qui. Sono felice, sono veramente contento, anche mia moglie ha detto che non è abituata a una cosa del genere…perché quello che è successo è davvero grande. Quando tornerò a casa mi renderò ancora più conto”, ha continuato il messinese, riferendo che ognuna delle maglie gialle conquistate ”andrà ad ogni compagno e allo staff”. E poi ci sono ”quelle del podio”. Ma per il momento ”festeggerò qui con i miei compagni…e poi stanotte farò sogni gialli”, ha ironizzato.

Rivivendo la premiazione sugli Champs-Elysées, tra place de la Concorde e l’Arco di Trionfo, lo squalo di Messina ha detto che in quel momento cercava di ”osservare veramente tutto, perché in quel momento non volevo perdermi niente di quello spettacolo, delle persone, delle bandiere, di tutto quello che mi circondava”.

La prima pagina della Gazzetta dello Sport del 28 luglio 2014
GAZZETTA IN GIALLO La prima pagina della Gazzetta dello Sport dedicata a Nibali

Poi un appunto culinario: alla vigilia dell’ultima tappa, ha raccontato, ”con i ragazzi non abbiamo mangiato la classica pasta ma siamo andati a mangiare una cosa un po’ liberatoria…un hamburger. Ma ogni tanto ci vuole anche quello per rilassarsi un attimo”. Quanto alle differenze tra Giro e Tour, il primo è ”stato per me molto importante perché mi ha proiettato nel mondo delle grandi corse a tappe”. Mentre il Tour ”era il sogno quasi impossibile”, ha concluso, prima di entrare nel locale parigino, per festeggiare l’impresa.

Vincenzo Nibali ha vinto il Tour de France, 16 anni dopo Marco Pantani. Nibali è il settimo italiano a vincere la Grande Boucle ed entra nel club dei grandissimi avendo in bacheca anche Il Giro d’Italia e la Vuelta di Spagna. Come lui nomi che sono entrati nella storia del calibro di Eddy Merckx, Bernard Hinault, Jacques Anquetil, Alberto Contador, Felice Gimondi.

Vincenzo Nibali con la maglia gialla del tour
Vincenzo Nibali con la maglia gialla del tour

“Lo Squalo” ha vinto un Tour diverso, forse, ma pur sempre la corsa a tappe più importante del mondo. Pesano su tutto i ritiri di Froome e Contador che, alla partenza, erano considerati i due principali favoriti. Lo Squalo dello Stretto era considerato il primo degli outsider.

Alla fine però Nibali ha conquistato tutti, soprattutto i francesi: ha pedalato da esperto sul pavè, ha dominato le montagne con una vittoria sui Volschi, una sulle Alpi e il capolavoro sui Pirenei ed è andato forte anche a cronometro. Inoltre si è rilevato un vero padrone della corsa nei momenti chiave.

Salvatore Nibali, il papà del grande campione non trattiene la commozione:  “E’ una gioia immensa, una gioia senza fine, ho i brividi in tutto il corpo”. Circondato dalla moglie, dai parenti e dagli amici, Salvatore Nibali ha aggiunto: “Lo sapevo fin dall’inizio che si sarebbe arrivati a questo punto, da quando aveva 14 anni, dalla sua prima gara”. “Non è una meraviglia, è una gioia enorme”, ha concluso il signor Salvatore, ringraziando tutti “immensamente”.

Mamma Nibali
Mamma Giovanna Nibali

Anche la sorella Carmen non crede ai suoi occhi: “Come regalo da Vincenzo voglio una delle maglie gialle. Dovrebbe venire qui a Messina ad agosto forse il 20 e ci sarà una grande festa. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con mio fratello, é sempre stato molto determinato e testardo. Un episodio curioso – racconta la sorella di Enzo –  è avvenuto quando aveva 10 anni e gli hanno rubato una delle prime bici: è scoppiato a piangere. Non smetteva più era disperato e mio padre gli ha dovuto comprare un’altra bici. Mio padre lo segue da quando era piccolo perché anche lui è appassionato di bici quando a tredici anni. Vincenzo voleva smettere gli ha dato uno schiaffo e mio fratello ha reagito ed è di nuovo salito sulle due ruote. Questa è la vittoria più bella sono sempre stata sicura che avrebbe vinto perché è un grande campione”.

“Non ci sono parole. E’ uno dei giorni più belli della mia vita. Una grande vittoria”. Così il team manager di Astana, Alexandre Vinokourov, che non contiene l’emozione in attesa della passerella finale di Nibali sulla linea d’arrivo del Tour. “Dopo il Giro d’Italia, Vincenzo era pronto mentalmente per conquistare il Tour – ha detto all’Ansa il team manager, sottolineando che in Francia “siamo venuti per vincere”. E “penso che oggi lui abbia molta fiducia nella squadra. Da noi ha trovato il supporto che cercava”. L’ex corridore ha anche ricordato la vecchia amicizia che lo lega al siciliano. “Tra noi – ha detto – ci sono anzitutto amicizia e profondo rispetto tra corridori”.

Papa Francesco preoccupato per cristiani perseguitati

in piazza san pietro contro le stragi cristiani in IraqPapa Francesco all’Angelus ha lanciato un appello per la situazione dei cristiani costretti a lasciare le zone dell’Iraq controllate dai miliziani jihadisti dell’Isis.

“Ho appreso con preoccupazione le notizie che giungono dalle comunità cristiane a Mosul (Iraq) e in altre parti del Medio Oriente, dove esse, sin dall’inizio del cristianesimo, hanno vissuto con i loro concittadini offrendo un significativo contributo al bene della società.

Vi invito a ricordarle nella preghiera”, ha detto il Pontefice.
papa francesco angelus“Oggi sono perseguitati – ha aggiunto il Papa ‘a braccio’ -.

I nostri fratelli sono perseguitati, sono cacciati via, devono lasciare le loro case senza avere la possibilità di portare niente”. “Assicuro a queste famiglie e a queste persone la mia vicinanza e la mia costante preghiera”, ha detto ancora il Pontefice.

“Carissimi fratelli e sorelle tanto perseguitati – ha proseguito sempre ‘a braccio’ papa Bergoglio con tono accorato -, io so quanto soffrite, io so che siete spogliati di tutto. Sono con voi nella fede in Colui che ha vinto il male”. “E a voi qui in piazza e a tutti coloro che ci seguono dalla televisione invito a ricordarli nella preghiera”, ha concluso.

La persecuzione dei Cristiani e l’indifferenza che uccide

persecuzione  dei Cristiani nel mondoErnesto Galli della Loggia per il Corriere della Sera

“Diciamo la verità: a quanti qui in Europa e in Occidente importerà davvero qualcosa dell’ennesima uccisione di cristiani, saltati in aria ieri, a Kano, in Nigeria, per lo scoppio di una bomba in una chiesa? E del resto a quanti glien’è importato davvero qualcosa dei cristiani obbligati la settimana scorsa ad abbandonare Mosul nel giro di 24 ore, pena la vita o la conversione forzata all’Islam? A nessuno. Così come nessuno ha mai alzato un dito per tutti i cristiani fuggiti a centinaia di migliaia in tutti questi anni dall’Iraq, dalla Siria, da tutto il mondo arabo. Quante risoluzioni i Paesi occidentali hanno presentato all’Onu riguardanti la loro sorte? Quanti milioni di dollari hanno chiesto alle agenzie delle Nazioni Unite di stanziare a loro favore? Sono ormai anni che la strage continua, quasi quotidiana: a decine e decine i cristiani vengono bruciati vivi o ammazzati nelle chiese dell’India, del Pakistan, dell’Egitto, della Nigeria. E sempre nel silenzio o comunque nell’inazione generali: che cosa, ad esempio, si è fatto realmente di concreto per le 276 ragazze cristiane rapite qualche settimana fa, sempre in Nigeria, dalla banda jihadista di Boko Haram perché colpevoli – niente di meno! – di voler andare a scuola, e quindi avviate a un destino che è facile immaginare?

I due principali motivi di questa vasta indifferenza sono ovvi. Il primo è che sempre di più stentiamo a sentirci, e ancor di più a dirci, cristiani. Non si tratta solo della semplice perdita della fede, che pure naturalmente conta. È questione di quanto ci sta dietro. Un paio di secoli di pensiero critico laico, soprattutto la sua gigantesca volgarizzazione/banalizzazione resa possibile dallo sviluppo dei mass media, hanno sottratto al Cristianesimo, agli occhi dei più, la dignità socio-culturale di una volta. Da tempo essere e dirsi cristiani non solo non è più intellettualmente apprezzato, ma in molti ambienti è quasi giudicato non più accettabile.
Il Cristianesimo non è per nulla «elegante», e spesso comporta a danno di chi lo pratica una sorta di tacita ma sostanziale messa al bando. L’atmosfera culturale dominante nelle società occidentali giudica come qualcosa di primitivo, al massimo un «placebo» per spiriti deboli, come qualcosa intimamente predisposto all’intolleranza e alla violenza, la religione in genere. In special modo le religioni monoteistiche. In teoria tutte, ma poi, in pratica, nel discorso pubblico diffuso, quasi soltanto il Cristianesimo e massimamente il Cattolicesimo, ad esclusione cioè del Giudaismo e dell’Islam: il primo per ovvie ragioni storico-morali legate (ma ancora per quanto tempo?) alla Shoah, il secondo semplicemente per paura.
Sì, bisogna dirlo: per paura.

 L’Europa ha paura, ed è questo il secondo motivo dell’indifferenza di cui dicevo prima. Ha paura dell’Islam arabo, del suo potere di ricatto economico non più legato soltanto al petrolio ma ormai anche ad una straordinaria liquidità finanziaria. Al tempo stesso, e soprattutto, ha paura del terrorismo spietato, delle tante guerriglie che all’Islam dicono di ispirarsi, della loro feroce barbarie, così come dei movimenti di rivolta che periodicamente agitano nel profondo le masse di quel mondo, sempre pervase di una suscettibilità facilissima ad accendersi e a trascendere in un’accanita xenofobia. Ma non solo. L’Islam ci fa paura anche perché la sua sola presenza – come del resto quella di altre grandi entità non benevole che popolano oggi il pianeta, come la Cina – indirettamente ci obbliga a fare i conti con una grande mutazione in corso nella nostra cultura e dunque nella nostra civiltà: l’impossibilità psicologica di avere un «nemico», di sostenere una situazione di conflittualità non componibile. Un’impossibilità che unita al rifiuto/rimozione della morte – morte che il tramonto della religione rende ormai impossibile accettare e dunque in qualche modo esorcizzare – sta a sua volta producendo in Occidente una gigantesca svolta storica: la virtuale impossibilità per noi di pensare e di fare la guerra. Almeno quella guerra non combattuta da macchine impersonali e sofisticate, ma la guerra vera, quella in cui si muore.

Ma che ne sanno di tutto questo i cristiani delle antichissime comunità di Mosul o di Aleppo, tutti gli altri sparsi dall’Africa all’India? Che cosa possono saperne? A questo punto, immagino, essi hanno solo capito la verità che per loro conta: e cioè di avere ben poche speranze se sperano in un aiuto che venga da qui. Dei cristiani e della loro religione all’Europa attuale importa sempre di meno. Si può essere certi che ogni intervento a loro favore sarebbe subito giudicato inammissibile, indebitamente discriminatorio, colpevolmente lesivo di qualche diritto all’eguaglianza di tutti rispetto a tutto. E sia. Ma Dio non voglia che questo non sia che un inizio: l’inizio di qualcosa di cui proprio in questi giorni non mancano i segni premonitori. In un’Europa pervasa dalla secolarizzazione, in un’Europa le cui fonti spirituali si vanno rapidamente inaridendo per il disprezzo dovunque decretato a ogni umanesimo, non può che stabilirsi un rapporto fatalmente necessario, infatti, tra l’indifferenza verso il Cristianesimo e l’antisemitismo. È la medesima indifferenza per ciò che non può essere espresso dai numeri, per ciò che viene dalla profondità dei tempi e dei cuori e che si agita nel buio delle anime: osando guardare in alto, più in alto di dove arriva lo sguardo umano”.

Storia della Palestina e di Israele. Dalla terra di Canaan a oggi

Storia della Palestina - L'Evoluzione della Palestina dal 1946 al 2000
L’Evoluzione della Palestina dal 1946 al 2000

Storia della Palestina

DAI PRIMI INSEDIAMENTI ARABI ALLE TRIBU’ NOMADI EBRAICHE

Quattromila anni prima di Cristo i cananei, una popolazione di lingua semita proveniente dall’interno della penisola arabica, si insediò in quelle terre che da allora presero il nome di terra di Canaan e che solo più tardi (con in Romani) sarebbero state chiamate Palestina. Fu la tribù cananea dei gebusei ad edificare il villaggio di Urusalim (Gerusalemme), la “città della pace”. Nel 3200 a.C. gran parte della terra di Canaan subì l’invasione degli egizi. l faraoni vi eressero delle fortezze al fine di proteggere le rotte commerciali, concedendo comunque al paese la sua autonomia.

Verso il 2000 a.C., ad attraversare la Palestina, dirigendosi verso sud, fu un’altra tribù nomade di origine semita, quella degli ebrei, guidati da Abramo. Sette secoli dopo dodici tribù ebraiche provenienti dall’Egitto, sotto il comando di Mosè, fecero ritorno in queste terre, dove ingaggiarono aspri combattimenti per il possesso della regione.

Soltanto quattro secoli più tardi Davide riuscì a sconfiggere i gebusei, unificando il regno ebraico. Tuttavia, alla morte di suo figlio Salomone, gli ebrei tornarono a dividersi in due regni – quello di Israele e quello di Giuda -, che più tardi passarono sotto la dominazione rispettivamente degli assiri (721 a.C.) e dei caldei (587 a.C.). Nel 587 a.C. Gerusalemme fu distrutta ad opera del sovrano caldeo Nabucodonosor, e i suoi abitanti furono fatti prigionieri e deportati a Babilonia.

ALESSANDRO MAGNO E I ROMANI
Nel 332 a.C. la Palestina fu conquistata da Alessandro Magno. Alla morte di quest’ultimo, la regione tornò sotto il controllo dell’impero egizio dei Tolomei, per passare successivamente sotto quello dei Seleucidi, abitanti della Siria. Nel 67 a.C. una rivolta capeggiata da Giuda Maccabeo restaurò lo stato ebraico, che venne però subito reso vassallo dall’impero romano.

Nel 63 a.C. i romani conquistarono Gerusalemme dopo averla messa a ferro e fuoco, per poi procedere alla sanguinosa repressione della resistenza opposta dai Maccabei, dagli zeloti e da altre tribù ebraiche. Intorno al 30 d.C., durante quella che fu una vera e propria persecuzione di massa, migliaia di ribelli furono crocifissi. Fra di loro c’era anche Gesù di Nazareth. Nel 70 d.C. venne raso al suolo il Tempio di Salomone e, nel 135 d.C., gli ebrei furono espulsi da Gerusalemme.

I romani chiamarono questo territorio Palestina. La dominazione romana e poi quella dell’impero romano d’Oriente si prolungarono fino all’anno 61l, quando la provincia subì l’invasione persiana. Gli arabi, una popolazione semita proveniente dall’interno dell’omonima penisola, conquistarono la Palestina nel 634 d.C.

MAOMETTO E L’ISLAM
Secondo la leggenda, il profeta Maometto ascese al cielo proprio a Gerusalemme, che assunse così al rango di città sacra per tutte e tre le grandi religioni monoteiste, nate da un ceppo comune. La fede islamica e la lingua araba rappresentarono i fattori unificanti per le varie popolazioni insediatesi nella regione, mentre i giudei furono gli unici a rimanere estranei a tale processo. Ad eccezione di alcuni brevi intervalli di tempo, segnati dalla dominazione parziale da parte dei crociati cristiani e dei mongoli, tra l’XI e il XIII secolo, la Palestina conobbe governi islamici per oltre un millennio e mezzo.

L’IMPERO OTTOMANO
Nel 1516 l’impero ottomano conquistò Gerusalemme, dando avvio alla lunghissima egemonia turca sulla Palestina, che si sarebbe conclusa soltanto alla fine della prima guerra mondiale. Durante il conflitto, Londra promise al califfo Hussein la nascita di uno stato arabo indipendente che comprendesse anche la Palestina in cambio della collaborazione nella lotta contro la Turchia.

LA NASCITA DEL SIONISMO
Nel 1917, il ministro degli Esteri britannico Lord Balfour si impegnò anche con il movimento sionista a favorire la creazione di uno “stato nazionale ebraico” in Palestina. In realtà a quei tempi la Gran Bretagna non aveva nessun potere sul territorio in questione, né di fatto né come diritti. In ogni caso, di lì a poco, dopo aver sconfitto militarmente i turchi – grazie all’alleanza con gli arabi -, la Gran Bretagna riuscì per l’appunto ad estendere la propria influenza sulla Palestina, ottenendo il relativo mandato di affidamento dalla Società delle Nazioni nel 1922. La popolazione ebraica aumentò, in virtù di massicce immigrazioni, passando dalle 50.000 unità dell’inizio del secolo alle 300.000 alla vigilia della seconda guerra mondiale (cfr. Israele).

L’IMMIGRAZIONE EBRAICA
Nell’aprile del 1936 i palestinesi indissero uno sciopero generale per protestare contro il flusso immigratorio, considerandolo una minaccia ai propri diritti. Fu allora che il governo inglese propose di suddividere la Palestina in due stati, uno ebraico e l’altro arabo, lasciando sotto l’amministrazione inglese il “corridoio” Gerusalemme-Jaffa (Tel Aviv). Gli arabi respinsero questa ipotesi di ripartizione e la regione divenne teatro di sanguinosi disordini, che cessarono soltanto nel 1939, quando Londra abbandonò del tutto l’idea e si decise a prendere provvedimenti per limitare l’immigrazione ebraica.

LA PAURA E LA DIASPORA PALESTINESE
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna affidò il problema alla neocostituita ONU. Nel 1947 l’Assemblea generale dell’ONU approvò un nuovo piano di ripartizione del territorio palestinese fra arabi ed ebrei. A quella data, nella metà che sarebbe diventata lo stato arabo vivevano 749.000 arabi e 9.250 ebrei, mentre nella parte corrispondente allo stato ebraico risiedevano 497.000 arabi e 498.000 ebrei. Per costringere i palestinesi ad abbandonare le proprie terre, alcuni gruppi sionisti decisero di ricorrere ad azioni terroristiche. li 9 aprile 1948 un commando dell’organizzazione sionista lrgun, guidato da Menahem Begin, penetrò nel villaggio di Deir Yassin uccidendo 254 civili. La paura generò l’esodo di 10.000 profughi palestinesi.

L’AUTOPROCLAMATO STATO D’ISRAELE
Il 14 maggio del 1948 Israele si proclamò unilateralmente stato indipendente. Gli eserciti dei paesi arabi vicini invasero Israele, ma non riuscirono ad impedire il consolidamento dello stato ebraico. Il neocostituito stato israeliano si ritrovò infatti nel 1949 con un territorio più ampio di quello previsto dal piano di spartizione proposto dalle Nazioni Unite. Intanto, più della metà degli arabi palestinesi avevano abbandonato le loro case. La maggioranza di questi profughi trovò rifugio in Cisgiordania – regione della Palestina annessa al regno hascemita della Transgiordania nel 1948 -, e nella striscia di Gaza, che passò invece sotto amministrazione egiziana.

IL RUOLO “CHIAVE” DELLE NAZIONI UNITE
Secondo le Nazioni Unite e, quindi, anche per il diritto internazionale, i palestinesi non costituivano una vera e propria nazione: si trattava di semplici profughi, che in quanto tali diventavano un mero “problema” da risolvere. Le decisioni politiche prese in merito alla questione palestinese vennero accettate dai governi arabi, che nominarono persino un rappresentante palestinese presso la Lega Araba.

LA NASCITA DELL’OLP
Su istanza presentata dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, nel 1964 una conferenza al vertice dei paesi arabi incaricò quest’ultimo di costituire un’organizzazione palestinese unificata. Il Consiglio nazionale palestinese riunitosi per la prima volta a Gerusalemme il 22 maggio del 1964 e formato da 422 membri – uomini politici, imprenditori, rappresentanti dei campi profughi e di organizzazioni sindacali, donne e giovani -, sancì la nascita dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).

LE DIVISIONI E LE PRIME INCURSIONI ARMATE
I gruppi palestinesi già attivi in clandestinità, come ad esempio Al Fatah, diffidavano di questa organizzazione promossa dai governi arabi né approvavano la politica diplomatica dell’OLP. Questi gruppi erano infatti convinti che solamente mediante interventi militari sarebbe stato possibile r impossessarsi del territorio palestinese. Il 10 gennaio 1965 fu portata a termine la prima azione armata in Israele.

LA GUERRA DEI SEI GIORNI
Nei mesi successivi, le azioni andarono intensificandosi fino a sfociare nella cosiddetta “Guerra dei Sei Giorni”, scoppiata nel 1967 e durante la quale Israele occupò Gerusalemme Est, il Golan siriano, il Sinai egiziano ed i territori palestinesi di Cisgiordania e Gaza. La vittoria riportata sugli eserciti regolari degli stati arabi coinvolti nel blitz rafforzò la convinzione che l’unica strada percorribile era la guerriglia. Nel marzo del 1968, durante un combattimento nel villaggio di AI-Karameh, i combattenti palestinesi costrinsero le forze israeliane alla ritirata. Questa scaramuccia passò alla storia come la prima vittoria delle forze armate palestinesi.

YASSER ARAFAT E IL “SETTEMBRE NERO”
Grazie al prestigio così conquistato, i gruppi armati poterono entrare a far parte dell’OLP, ottenendo inoltre l’appoggio dei governi arabi. Nel febbraio 1969 Yasser Arafat venne eletto presidente dell’OLP. Il rafforzamento politico e militare palestinese fu avvertito come una minaccia dal re Hussein di Giordania, che fino a quel momento ne era stato rappresentante e portavoce. La tensione fra re Hussein e i palestinesi crebbe al punto da portare, nel settembre 1970 e solo dopo una serie di cruenti combattimenti, all’espulsione dalla Giordania dell’OLP, che stabilì il proprio quartier generale a Beirut. Il nuovo esilio dell’OLP ridusse la possibilità di realizzare altre azioni armate in territorio israeliano. Intanto nacquero altri gruppi radicali, fra cui “Settembre Nero”, autore di attentati contro istituzioni ed imprese israeliane in Europa e nel resto del mondo.

LA CONFERENZA DI ALGERI
La direzione dell’OLP intuì subito la necessità di un cambiamento nella propria tattica: senza abbandonare la lotta armata, diede contemporaneamente avvio ad una vasta operazione diplomatica e iniziò a dedicare la maggior parte dei propri sforzi al processo di consolidamento dell’unità e dell’identità palestinese. La conferenza del Movimento dei Paesi Non Allineati tenutasi ad Algeri nel 1973 individuò per la prima volta nella questione palestinese – e non più nella rivalità fra Israele e i paesi arabi – la chiave per risolvere il conflitto in Medio Oriente.

LA CONDANNA DEL SIONISMO COME RAZZISMO
Nel 1974 un summit della Lega Araba riconobbe ufficialmente l’OLP quale “unico rappresentante legittimo del popolo palestinese”. Nell’ottobre del medesimo anno, l’OLP venne ammessa in veste di osservatore all’Assemblea generale dell’ONU, che riconobbe il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e all’indipendenza, condannando al contempo il sionismo come “una forma di razzismo”.

LE PROPOSTE DELL’OLP
La proposta dell’OLP prevedeva “l’istituzione di uno stato laico e indipendente comprendente l’intero territorio palestinese, in cui musulmani, cristiani ed ebrei possano vivere in pace, godendo degli stessi diritti e doveri”. Si trattava di un obiettivo che implicava necessariamente la fine dell’attuale stato d’Israele. Senza rinunciare a questa meta finale, tuttavia, l’OLP ammise quale “soluzione temporanea” la costituzione di uno stato palestinese indipendente “in qualsiasi parte del territorio eventualmente liberato attraverso la forza o dal quale Israele si ritiri volontariamente”.

L’ACCORDO DI PACE DI CAMP DAVID
Nel 1980, il primo ministro israeliano, Menahem Begin, leader del partito di destra Likud, e il presidente egiziano Anwar Sadat firmarono un accordo di pace a Camp David, reso possibile grazie alla mediazione statunitense. Poco dopo, Begin procedette all’annessione formale della zona araba di Gerusalemme, proclamandola “capitale unica e indivisibile” di lsraele. lntanto si intensificava la colonizzazione israeliana della Cisgiordania, attuata attraverso l’espropriazione di terre palestinesi, accrescendo la già notevole tensione esistente nei territori occupati. Il parere contrario a tali misure espresso dalle Nazioni Unite non ebbe nessun effetto pratico a causa del veto posto dagli Stati Uniti nell’ambito del Consiglio di sicurezza a qualsiasi tipo di sanzione contro Israele.

ISRAELE INVADE IL LIBANO PER ANNIENTARE L’OLP
Nel luglio del 1982, nel tentativo di “risolvere definitivamente” la questione palestinese, le truppe israeliane invasero il Libano. L’obiettivo era quello di annientare la struttura militare dell’OLP, catturandone il maggior numero possibile di dirigenti e militanti, procedendo quindi all’annessione del Libano meridionale e provvedendo all’insediamento a Beirut di un governo facilmente manovrabile da Israele.

I MASSACRI NEI CAMPI PROFUGHI
Asserragliate all’interno di Beirut, le forze palestinesi accettarono di ritirarsi solo dopo aver ottenuto precise garanzie in merito alla protezione dei civili da parte di una Forza internazionale di pace, la cui totale inefficacia sarebbe però stata dimostrata dai successivi massacri perpetrati nei campi profughi di Sabra e Shatila. In ogni caso, l’OLP riuscì a trasformare quella che sembrava una completa sconfitta in una vittoria politica e diplomatica. La sede dell’Organizzazione venne trasferita a Tunisi, mentre il suo capo Yasser Arafat si recò in numerosi paesi europei, dove venne ricevuto con gli onori dovuti a un capo di stato, come nel caso della sua visita in Vaticano.

PACIFISMO, DIPLOMAZIA E DIVISIONI
Muovendosi sempre con estrema cautela, l’OLP intavolò nuove trattative con alcuni dirigenti politici israeliani favorevoli ad una soluzione negoziata del problema palestinese. L’invasione del Libano favorì la nascita di piccoli gruppi pacifisti attivi in Israele che invocavano un dialogo con I’OLP. Alcuni gruppi palestinesi di tendenze radicali misero in discussione tali tentativi di avvicinamento e manifestarono il proprio dissenso nei confronti della linea politica di Yasser Arafat. Si pervenne così a una rottura all’interno dell’OLP, le cui distinte fazioni si affrontarono talvolta anche violentemente.

LE PROTESTE ARABE E LA REPRESSIONE ISRAELIANA
Nel 1987, dopo alcuni anni di difficoltà interne, il Consiglio nazionale palestinese tornò a riunirsi ad Algeri, dove si diedero appuntamento le delegazioni di varie organizzazioni palestinesi (ad eccezione di quelle di alcuni gruppi fautori dell’azione militare). Da questo incontro l’unità interna dell’OLP uscì comunque ricomposta. Nel novembre 1987, un automezzo militare israeliano investì tre operai palestinesi nel la striscia di Gaza. Per protestare contro tale episodio, le attività commerciali palestinesi attuarono una serrata e la gente si riversò nelle strade. Davanti alle proteste arabe, il governo israeliano rispose con una repressione ancor più dura.

NASCE L’INTIFADA
A differenza però di quanto era avvenuto in precedenti occasioni, quello che decise a favore dell’intervento militare fu l’aumento del numero di donne, anziani e bambini che prendevano parte alle manifestazioni. Quanto più numerose erano le vittime fra i civili, tanto più forte diventava l’odio, le manifestazioni e gli scioperi si facevano sempre più frequenti; i negozi costretti a chiudere aumentavano, così come erano sempre più numerosi i funerali che diventavano veri e propri atti di aperta sfida politica. Fu così che in Cisgiordania e Gaza ebbe inizio l’Intifada (in arabo sollevazione).

Durante i primi mesi del 1988 si assistette ad una partecipazione di massa di palestinesi con cittadinanza israeliana agli scioperi organizzati dalla cosiddetta “Direzione unificata per la rivolta popolare nei territori occupati”. Si trattava delle prime istanze di una posizione politica comune con i palestinesi dei territori occupati.

LO STATO PALESTINESE
Nel luglio 1988 re Hussein di Giordania annunciò la rottura dei rapporti commerciali e delle relazioni politiche con la Cisgiordania. A partire da tale data, l’OLP diventava quindi l’unica organizzazione responsabile per la popolazione di questo territorio. Riunitosi ad Algeri il 14 novembre 1988, il Consiglio nazionale palestinese proclamò la nascita di uno stato palestinese indipendente comprendente i territori occupati da Israele nel 1967, rivendicando al contempo per Gerusalemme il ruolo di capitale del nuovo stato. Il CNP approvò inoltre le risoluzioni 181 e 242 dell’ONU, accettando il diritto all’esistenza dello stato d’Israele. Dieci giorni dopo ben 54 paesi del mondo riconobbero il nuovo stato palestinese.

Arafat, dopo essere stato nominato presidente del nuovo stato, venne ricevuto a Ginevra dall’Assemblea generale dell’ONU, appositamente riunitasi per ascoltarne le dichiarazioni. Il leader palestinese ripudiò il terrorismo, accettò l’esistenza dello stato d’Israele e sollecitò l’invio di una forza internazionale nei territori occupati. Successivamente il presidente Reagan decise di dare avvio ai negoziati con l’OLP.

Il Consiglio di sicurezza dell’ONU tornò a riunirsi a Ginevra dietro richiesta dei governi arabi. Arafat relazionò sugli episodi di violenza verificatisi nei territori occupati ed esortò l’ONU a convocare d’urgenza una conferenza internazionale di pace in Medio Oriente.

LE TENSIONI DOPO L’INVASIONE IRACHENA DEL KUWAIT
All’emergere delle tensioni fra Iraq e Kuwait, intorno alla metà del 1990, Arafat tentò invano di aprire dei negoziati fra i due paesi. Dopo l’invasione irachena, i palestinesi cercarono di stabilire un rapporto di analogia fra la situazione del Kuwait e quella della Palestina, affermando che se l’Iraq era obbligato ad adeguarsi alle risoluzioni dell’ONU, altrettanto doveva fare Israele.

Allo scoppio della guerra il popolo palestinese espresse apertamente le proprie simpatie filoirachene, privando in questo modo l’OLP del sostegno finanziario delle ricche monarchie del Golfo, contrarie al regime iracheno. Dopo la sconfitta di quest’ultimo, nel marzo 1991, l’atmosfera di tensione nei territori occupati fu esacerbata dall’imposizione del coprifuoco. Sul piano diplomatico tuttavia, una dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Russia ribadì la speranza di pervenire a un accordo di pace fra arabi e israeliani, evidenziando un allontanamento fra la posizione degli Stati Uniti e quella di Israele.

Nel settembre 1991, in chiusura del Consiglio nazionale palestinese, Yasser Arafat venne riconfermato presidente della Palestina nonché dell’OLP. In questa occasione fra l’altro l’OLP accettò le dimissioni di Abu Abbas, leader del Fronte per la liberazione della Palestina. Abbas venne condannato in contumacia da un tribunale italiano all’ergastolo in quanto colpevole del sequestro del transatlantico “Achille Lauro”, avvenuto nel 1985.

LA PRIMA CONFERENZA DI PACE E LE TRATTATIVE
La prima Conferenza di pace per il Medio Oriente si celebrò a Madrid dal 30 ottobre al 4 novembre del 1991 con il patrocinio degli Stati Uniti e della Russia. Le delegazioni arabe chiesero all’unanimità che i negoziati si sviluppassero sulla base delle risoluzioni numero 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in cui si rifiutava l’annessione dei territori attraverso la forza e si auspicava la loro cessione esclusivamente dietro la promessa di un concreto impegno di pace.

La Conferenza per il Medio Oriente proseguì poi in dicembre, a Washington, senza registrare concreti passi avanti nella questione palestinese.lsraele da parte sua ribadì la validità della propria interpretazione delle risoluzioni dell’ONU. In particolare, la delegazione israeliana si ritenne soddisfatta dall’esito della Conferenza grazie all’annullamento della risoluzione numero 337 dell’ONU che bollava il sionismo quale forma di razzismo.

Dopo le elezioni israeliane del giugno del 1992, il nuovo premier, il laburista Yitzhak Rabin, decise di bloccare l’insediamento dei coloni nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. Ciononostante, la ripresa dei negoziati, interrottisi a causa dell’espulsione in Libano di 415 palestinesi del gruppo di Hamas, restava di difficile attuazione.

Le trattative segrete fra l’OLP e il governo israeliano, con l’attiva partecipazione della diplomazia norvegese. approdarono allo storico mutuo riconoscimento fra i due stati del 13 settembre 1993, avvenuto a Washington. In quella circostanza, inoltre, Arafat e Rabin firmarono una dichiarazione di principio sull’autonomia dei territori occupati che fu il primo documento di pace approvato congiuntamente dallo stato d’Israele e dall’OLP. L’accordo raggiunto prevedeva un’autonomia limitata con autogovernò palestinese per la striscia di Gaza e la città di Gerico per un periodo di cinque anni, trascorsi i quali l’autonomia si sarebbe estesa anche alla Cisgiordania.

ISRAELE RICONOSCE L’OLP
Pochi giorni dopo il Parlamento israeliano ratificò il riconoscimento dell’OLP e la dichiarazione di principio sottoscritta a Washington. Da parte sua, il Consiglio centrale dell’OLP approvò il testo sull’autonomia. Tuttavia, il gruppo radicale palestinese di Hamas e quello filoiraniano degli Hezbollah si opposero agli accordi di pace e decisero di continuare nella loro strategia terroristica contro soldati e civili israeliani.

Anche i coloni insediatisi nei territori occupati e l’estrema destra sul versante israeliano si opposero energicamente all’accordo. In un’atmosfera di aperta ostilità, la ritirata militare israeliana da Gaza e da Gerico, inizialmente fissata per il 13 dicembre, venne infine posticipata.

RABIN E ARAFAT: “PRIMA DI TUTTO GAZA E GERICO”
Nel maggio del 1994 Rabin ed Arafat apposero la propria firma all’accordo d’autonomia definito “Prima di tutto Gaza e Gerico” , mentre nel frattempo continuava la ritirata israeliana, rendendo possibile il ritorno di contingenti militari appartenenti all’Esercito di liberazione della Palestina dall’esilio in Egitto,Yemen, Libia, Giordania o Algeria.

Arafat giunse a Gaza nel luglio del 1994, e assunse l’incarico di presidente dell’Autorità nazionale palestinese (AP). Lo scontro fra il leader dell’OLP e i suoi avversari dell’ala più radicale, contrari a qualsiasi accordo con Israele, divenne sempre più aspro. Dopo la morte del dirigente della Jihad islamica Hani Abed, imputata ai servizi segreti di Tel Aviv, nel novembre del 1994 furono assassinati tre soldati israeliani. Una settimana dopo, la neocostituita polizia palestinese fece fuoco su un gruppo di persone che uscivano da una moschea frequentata da militanti fondamentalisti, causando la morte di 13 persone.

Gaza si ritrovò sull’orlo di una nuova guerra civile nell’aprile del 1995, quando, nel crollo di un edificio, raso al suolo da un attentato, rimasero uccise sette persone, fra cui Kamal Kaheil, uno dei leader delle brigate terroristiche Ezzedin-El-Kassam. Alcuni attacchi suicidi attuati per rappresaglia da Hamas e dalla Jihad islamica provocarono la morte di sette soldati israeliani e di una turista statunitense, ferendo una quarantina di persone.

L’ASSASSINIO DI RABIN
Il 4 novembre il premier israeliano Yitzhak Rabin fu assassinato da un estremista di destra ebreo. La tensione continuava a crescere mentre proseguivano anche gli incontri fra i fondamentalisti islamici e i dirigenti dell’OLP. Arafat, fra le altre cose, voleva che Hamas prendesse parte alle elezioni politiche palestinesi del gennaio del 1996, intuendo che la partecipazione di Hamas avrebbe dato maggiore legittimità alla propria leadership. Dopo varie indecisioni, i fondamentalisti decisero di boicottare le consultazioni elettorali.Arafat venne eletto presidente con l’87% dei voti e i candidati filogovernativi ottennero 66 seggi sugli 88 contesi.

L’ASCESA DI NETANYAHU
L’elezione di Benjamin Netanyahu a primo ministro d’Israele nel maggio del 1996 acuì la tensione fra i due paesi che sfociò nell’ennesimo scontro militare a settembre dopo la decisione da parte delle autorità di Tel Aviv di aprire un tunnel al di sotto della moschea di EI-Aqsa a Gerusalemme. Nei disordini persero la vita decine di palestinesi e di israeliani. La situazione era ormai esplosiva al punto da richiedere la convocazione di un vertice fra Arafat e Netanyahu, a cui partecipò anche il presidente statunitense Bill Clinton.

Le difficili trattative conclusesi col ritiro delle truppe israeliane dalla città di Hebron, che passò così sotto l’amministrazione palestinese, rappresentarono un ulteriore riconoscimento per il governo guidato da Yasser Arafat. Nel gennaio del 1997 il presidente palestinese ricordò nuovamente che rimaneva ancora da definire lo status di Gerusalemme che, insieme al tema della formazione dello stato palestinese, avrebbe costituito il pr incipale punto di discussione al prossimo incontro.

LE VOLONTA’ ISRAELIANE E LE OPPOSIZIONI ARABE
La decisione israeliana di costruire un nuovo insediamento di coloni sulle colline di Har Homa, nella zona palestinese di Gerusalemme, venne respinta con vigore dall’Assemblea palestinese e dalla diplomazia occidentale. L’avvio delle opere, nel marzo del 1997, causò aspri scontri fra palestinesi ed effettivi dell’esercito israeliano e finì col congelare il processo di pace. Il governo israeliano annunciò che era disposto a restituire all’AP soltanto il 2% della Cisgiordania. Il presidente israeliano, Ezer Waizman, si incontrò comunque con Arafat per dare un segno di buona volontà, senza tuttavia riuscire a convincere Netanyahu a cambiare atteggiamento né a contenere la violenta reazione palestinese. Poco tempo dopo, l’AP decise l’applicazione della pena di morte ai cittadini palestinesi che vendessero terre o alloggi agli israeliani.

GLI SFORZI PER LA PACE
Nel novembre del 1997, la commemorazione del secondo anniversario dell’assassinio di Yitzhak Rabin diede luogo alla più grande manifestazione a favore della pace con la Palestina degli ultimi anni. Nel febbraio del 1998, una cinquantina di militanti del gruppo pacifista “Pace ora” della sinistra israeliana diedero vita a una manifestazione davanti all’insediamento di Kyriat Arba, alla periferia di Hebron, per protestare contro l’erezione di un monumento sulla tomba di Baruch Goldstein, che in questa città quattro anni prima aveva ucciso 29 palestinesi.

LE TRATTATIVE PER LA RESTITUZIONE DEI TERRITORI OCCUPATI
Nel maggio 1998 Arafat e Netanyahu si incontrarono a Londra, invitati dal premier britannico Tony Blair e alla presenza del segretario di Stato statunitense Madeleine Albright. Nonostante gli sforzi, il dialogo si arenò sul tema della Giordania occupata. In base a precedenti trattati, la Cisgiordania era divisa in tre settori: la zona A, corrispondente al 3% del territorio; la B, equivalente al 24% del territorio cisgiordano (abitata da un numero consistente di palestinesi, sarebbe passata a un’amministrazione congiunta); la C, comprendente il restante 73%, é occupata interamente da Israele.

La settimana precedente all’incontro londinese, gli Stati Uniti avevano reso pubblica la propria proposta, subito accettata da Arafat quale segno di buona volontà, che prevedeva la restituzione da parte di Israele del 13% della zona C e del 14% della B. Netanyahu tuttavia si rifiutò di cedere più del 9%.

Le manovre dilatorie israeliane fecero sì che Arafat suggerisse una maggiore partecipazione degli Stati Uniti nella mediazione. Nell’aprile del 2000, Ehud Barak, il nuovo primo ministro israeliano, accolse tale richiesta, cercando tuttavia di costringere Arafat a rimandare la proclamazione dello Stato Palestinese. Gerusalemme divenne il maggiore ostacolo ai negoziati, poiché entrambe le parti esigevano di farne la capitale dei rispettivi stati.

“L’AFFRONTO” DI SHARON NELLA SPIANATA DELLE MOSCHEE
La violenza esplose nuovamente nel settembre del 2000 quando l’esponente della destra Ariel Sharon si recò in visita a un tempio nella spianata delle moschee, luogo sacro per i musulmani e gli ebrei. Quella visita fu considerata dai palestinesi una provocazione intollerabile. Negli scontri delle settimane seguenti morirono circa cento persone, per lo più palestinesi. Arafat, Barak e Clinton, insieme ad autorità di altri paesi, si riunirono in Egitto in ottobre per cercare di salvare il processo di pace, Lo scoppio della nuova Intifada fece sì che il governo di Barak finisse in minoranza, perciò furono indette nuove elezioni.

La vittoria di Sharon alle elezioni israeliane del febbraio 2001 fu percepita come un colpo in più contro il deteriorato processo di pace. Nello stesso mese la segreteria generale delle Nazioni Unite pubblicò un documento secondo il quale il blocco economico imposto da Israele in Cisgiordania e nella striscia di Gaza spingeva il governo di Arafat sull’orlo del collasso per mancanza di fondi.

Durante i mesi successivi gli scontri si aggravarono. Gli attacchi israeliani e l’esaurimento dei negoziati fecero crescere la resistenza contro l’occupazione. Sharon reagì con uccisioni selettive di presunti terroristi e ampliò la sua offensiva attaccando con elicotteri e navi da guerra nuclei e villaggi palestinesi. Seguirono incursioni notturne nelle città palestinesi con distruzione di case, aeroporti e ospedali. Centinaia di palestinesi morirono durante la ribellione e le azioni militari proseguirono con l’occupazione di quei territori che erano sotto un relativo controllo palestinese.

L’11 SETTEMBRE
In seguito all’attacco dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center di New York e il Pentagono, Sharon credette che l’opinione pubblica internazionale e l’atteggiamento dei governi occidentali potesse volgersi a suo favore, contando sull’appoggio degli Stati Uniti, e intensificò la sua offensiva contro la rivolta dei palestinesi.

Molti attentati suicidi compiuti da militanti radicali palestinesi segnarono una nuova fase del conflitto. Hamas e la Jihad islamica, tra altri gruppi islamisti, sceglievano i luoghi più frequentati da giovani israeliani per immolarsi provocando il maggior danno possibile. Per rafforzare la sicurezza, Sharon limitò il passaggio di beni e persone attraverso la frontiera con la Cisgiordania e con la striscia di Gaza. Questa misura danneggiò sia gli operai, sia le imprese palestinesi.

LA ROTTURA TRA SHARON E ARAFAT
In dicembre Sharon troncò ogni rapporto con Arafat. La nuova strategia israeliana consisteva nel rifiutare di considerare il leader palestinese un interlocutore valido. La rottura pose fine a qualunque tentativo di negoziazione. All’inizio del 2002, in vista dell’arrivo di un nuovo mediatore statunitense, Sharon tolse le restrizioni imposte ai palestinesi di Cisgiordania e Gaza, che tuttavia restavano occupate dall’esercito israeliano.

Dopo 18 mesi di rivolta, le restrizioni al movimento di beni e persone in Israele e nei territori occupati spinsero l’economia palestinese sull’orlo del fallimento. La chiusura continuata dei passaggi di frontiera causò danni irreparabili. La disoccupazione triplicò, colpendo quasi il 30% della manodopera palestinese. L’ANP registrò un deficit di bilancio di 430 milioni di dollari e il PIL stimato a Gaza e in Cisgiordania scese del 12% nel primo trimestre del 2002.

In marzo si celebrò a Beirut il vertice dei paesi arabi, a cui Arafat non poté partecipare perché Sharon lo stringeva d’assedio nel suo bunker di Ramallah. Un gruppo di 40 pacifisti, tra cui 11 occidentali, sfidò l’accerchiamento israeliano e formò uno “scudo umano” per proteggere il leader palestinese da un possibile attacco.

Il vertice si concluse con l’approvazione di un piano di pace che includeva una decisione storica: i firmatari si impegnavano a riconoscere lo Stato di Israele, purché questo si ritirasse entro le frontiere che aveva prima del 1967 e permettesse il rientro di tre milioni di rifugiati palestinesi, la formazione di uno Stato palestinese con una parte di Gerusalemme come capitale. Israele definì “inaccettabile” la proposta.

IL PIANO DI “LOTTA COMUNE” PER LA PALESTINA
In aprile Al Fatah, Hamas, la Jihad islamica, il Fronte Popolare e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina concordarono per la prima volta un piano di lotta comune. Nello stesso mese il campo profughi di Jenin fu bersaglio di sanguinosi bombardamenti israeliani.

Il 10 maggio, dopo quasi 40 giorni di assedio, 126 palestinesi asserragliati nella Chiesa della Natività di Betlemme abbandonarono a uno a uno il santuario. I primi a uscire – 13 uomini considerati terroristi da Israele – vennero trasferiti a bordo di un aereo britannico a Cipro, dove rimasero finché l’Unione Europea non ebbe deciso la loro destinazione in differenti paesi. Altri 26 palestinesi, che Israele accusava di delitti minori, furono inviati nella striscia di Gaza, mentre il resto venne rimesso in libertà.

Nel maggio 2002 Arafat dichiarò che era giunto il momento di cambiare e ammise di aver commesso errori nella sua gestione del potere. In giugno, attraverso il suo ministro Saeb Erekat, il leader palestinese indisse le elezioni presidenziali, parlamentari e amministrative per il gennaio 2003.

Nel giugno 2002 il presidente statunitense George W. Bush invitò i palestinesi a respingere la leadership di Arafat e a scegliersi un leader che non fosse “legato al terrorismo”. In dicembre Arafat rimandò le elezioni, attribuendo a Israele la colpa del ritardo.

ABBAS E LE “CONCESSIONI” A ISRAELE
Nel marzo 2003, Mahmoud Abbas (un politico moderato noto anche come Abu Mazen) fu eletto primo ministro dell’Autorità palestinese. In aprile, Bush presentò a Sharon e Abbas un nuovo piano di pace noto come Road Map, sponsorizzato dal cosiddetto Quartetto del Medio Oriente (Stati Uniti, Unione Europea, ONU e Federazione Russa). Il piano proponeva la creazione di uno Stato palestinese e la risoluzione di tutte le questioni aperte entro il 2005. Abbas si dimise a luglio, accusato dai radicali di fare troppe concessioni a Israele.

I KAMIKAZE DELLE FRANGE ESTREME PALESTINESI
La violenza aumentò. Per la prima volta una giovane donna, madre di due bambini, effettuò un attacco suicida. Il primo ministro Sharon ordinò nuovamente attacchi e distruzioni dei villaggi palestinesi. Iniziò, inoltre, la costruzione di un muro di separazione in Cisgiordania. La reazione della comunità internazionale fu, alla meglio, permissiva. La barriera priva migliaia di palestinesi dell’accesso a servizi fondamentali come acqua, sanità e istruzione, oltre che ad altre fonti di sussistenza, come l’agricoltura e altre opportunità di lavoro. La decisione israeliana diede vita a un movimento internazionale contro il “muro della vergogna”.

Nel marzo 2004, Hamas compì un duplice attacco suicida nel porto di Ashdod. Israele rispose con una serie di attacchi, consistenti in “uccisioni mirate” di leader politici palestinesi. In un’operazione diretta da Sharon, Israele uccise il leader spirituale sceicco Ahmed Yassin, sessantasettenne e paralitico, mentre usciva da una moschea a Sabra (Gaza). Sebbene l’omicidio fosse stato unanimemente condannato dalla comunità internazionale, gli Stati Uniti opposero il veto alla mozione di condanna avanzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Nell’aprile 2004, Sharon annunciò un “Piano di ritiro unilaterale dalle aree palestinesi” che comprendeva l’evacuazione degli insediamenti nella Striscia di Gaza e lo smantellamento di sei colonie in Cisgiordania. In cambio, Israele chiedeva l’appoggio degli Stati Uniti per mantenere blocchi di insediamenti in Cisgiordania e una dichiarazione del presidente Bush che negava ai profughi palestinesi il diritto di tornare in patria.

LA MORTE DI ARAFAT
L’11 novembre del 2004, dopo essere rimasto in coma all’ospedale militare di Percy, in Francia, morì Yasser Arafat. Il primo ministro francese Raffarin guidò la cerimonia di saluto ad Arafat; fra i pochi capi di stato non musulmani, parteciparono il presidente sudafricano Thabo Mbeki e il primo ministro svedese Goran Persson. Il funerale di stato fu celebrato vicino all’aereoporto de Il Cairo, in Egitto. Arafat fu seppellito nella sede dell’ANP a Ramallah, perché Israele non permise che fosse seppellito a Gerusalemme, com’era suo desiderio. Rauhi Fatuh fu nominato presidente ad interim in attesa delle elezioni. Nel gennaio 2005 le elezioni presidenziali indette per nominare il successore di Arafat coinvolsero centinaia di migliaia di palestinesi, e centinaia di osservatori internazionali. Le elezioni videro la vittoria di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che ottenne il 62% dei voti. Abbas iniziò subito le trattative con gruppi militanti come Hamas e la Jihad islamica affinché cessassero gli attacchi contro Israele. A dicembre il primo ministro Ariel Sharon fu colpito da ictus e ricoverato in stato vegetativo, senza possibilità di ripresa. I suoi poteri furono assegnati al suo vice Ehud Olmert.

LA VITTORIA ELETTORALE DI HAMAS
Nel gennaio 2006, inaspettatamente, Hamas vinse le elezioni dell’Autorità Nazionale Palestinese, mettendo in difficoltà il presidente Abbas. Questi voleva proseguire i negoziati di pace, ma Israele non era disposto a negoziare con Hamas fino a quando il gruppo non avesse abbandonato le armi e riconosciuto lo Stato di Israele.

A marzo il primo ministro Olmert vinse le elezioni e si impegnò ad andare avanti con la definizione dei confini finali si Israele. Nel giugno 2007 il Parlamento elegge presidente Shimon Peres dopo aver sollevato il precedente Moshe Katzav, accusato di violenza sessuale da sette donne. Nello stesso periodo, dopo una serie di scontri e molte vittime tra le fazioni palestinesi in lotta fra loro, Hamas prende il sopravvento nella Striscia di Gaza.

OLMERT E MAZEN
Nel novembre 2007, si tiene il vertice di Annapolis nel Meryland (Stati Uniti) tra il presidente Usa Bush, il premier israeliano Olmert e il presidente palestinese Mazen, dove le parti si impegnano a compiere “tutti gli sforzi possibili per concludere un accordo prima della fine del 2008”.

Nel settembre 2008, le dimissioni del primo ministro Olmert, indagato dalla magistratura per motivi finanziari, portano alla crisi di governo. Il ministro degli esteri Tzipi Livni a capo del governo provvisorio, ma si va verso nuove elezioni previste nel febbraio 2009.

Il 27 dicembre 2008, terminata la tregua durata circa un anno con Hamas, che aveva ripreso il lancio di missili verso le cittadine israeliane, Israele inizia una serie di bombardamenti sulle città della Striscia di Gaza.

(Fonte: Guida del Mondo visto da Sud 2000 – Istituto Tercer Mundo. Agenzie)

Nella notte del 3 gennaio 2009, le truppe di Israele entrano nella Striscia di Gaza. Prosegue l’operazione “Piombo fuso” anche con la mobilitazione via terra. Il 17 gennaio 2009 Israele dichiara una tregua unilaterale. Il giorno successivo anche le diverse organizzazioni palestinesi presenti nella striscia di Gaza annunciano un cessate il fuoco

Nonostante ciò proseguono gli attacchi dell’esercito israeliano: il 20 gennaio fonti palestinesi denunciano l’uccisione di un contadino, il 22 gennaio il bombardamento di as-Sudaniya, a nord-ovest della Striscia di Gaza, il ferimento di 7 palestinesi e il ferimento di un bambino palestinese, il 23 gennaio sparatorie contro civili, il 26 gennaio il ferimento di un cittadino palestinese, il 27 gennaio l’uccisione di un palestinese a al-Farahin, il 28 gennaio il bombardamento aereo della zone di frontiera tra Gaza e Egitto, il 29 gennaio il ferimento di 12 palestinesi da parte di un aereo israeliano.

Nei giorni successivi anche missili palestinesi colpirono le città israeliane. Il numero dei morti sul lato israeliano è di 10 militari più 3 civili. Sul lato palestinese, le cifre sono ancora molto discordanti: le fonti israeliane parlano di 500-600 morti, mentre secondo quelle palestinesi i morti al 18 gennaio [2009] sono 1305 (417 bambini, 120 donne, 120 anziani, 14 soccorritori, 4 giornalisti e 5 stranieri) e i feriti 5450.

Il 14 novembre 2012 inizia l’operazione “Colonna di nuvola” detta anche “Operazione Pilastro di difesa”, nome in codice della campagna militare delle Forze di difesa israeliane contro i militanti di Hamas e del Movimento per il Jihad Islamico in Palestina (spesso sinteticamente definito Jihad Islamico Palestinese), come rappresaglia per il loro lancio di razzi dalla Striscia di Gaza verso il sud (Sderot, Beersheva) e il centro di Israele (Tel Aviv, Gerusalemme).

È stata la seconda imponente operazione militare lanciata da Israele su Gaza dalla fine del 2008, dopo l’operazione Piombo fuso.

(Fonte: Wikipedia)

L’8 luglio 2014 Israele avvia “l’Operazione Margine Protettivo” contro i militanti palestinesi di Hamas. Tutto ha avuto origine dal rapimento, nel sud della Cisgiordania, di tre ragazzi israeliani successivamente ritrovati morti. Da quì la rappresaglia isreliana che prima con l’aviazione poi con le forze militari di terra ha dato vita ad una violentissima offensiva nella Striscia di Gaza colpendo ospedali, case, scuole e istituti pubblici. L’obiettivo del governo israeliano è quello di rendere inoffensiva Hamas, l’organizzazione paramilitare guidata da Khaled Meshaal. Il bilancio finora è di oltre 1000 morti palestinesi (la maggior parte dei quali civili, molti bambini, donne e anziani) e alcune decine di militari israeliani.

Nel maggio 2021 scatta la nuova spietata offensiva di Israele contro i palestinesi. E la storia si ripete…

L’Onu condanna Israele: “Contro i palestinesi crimini di guerra”

Da Gaza Michele Giorgio per il Manifesto (24 luglio 2014)

Safwat è tutto sudato, è appena tornato da Khuzaa, dal «fronte meridionale», così come a Gaza ora chiamano tutta la zona sudorientale di Khan Yunis, la seconda città della Striscia. Lavora come producer per una nota televisione araba e gira immagini, organizza delle dirette dalle zone più a rischio, mette ogni giorno in pericolo la vita dell’intera troupe. «E proprio difficile lavorare lì, gli israeliani sparano in continuazione, non smettono un minuto. Ad un certo punto siamo stati costretti a tornare all’auto e ad andare via». Safwat non ha dubbi che a Khuzaa stia avvenendo un altro massacro, come domenica a Shujayea. «Quando lasceranno portare via morti, ci renderemo conto che è stata un’altra strage», dice scuotendo la testa.

Guerra a Gaza, l'Onu condanna Israele per crimini di guerra

I primi bilanci che arrivano da quell’area parlano di 10 mortì e numerosi feriti. Ma diversi corpi sono ancora sul campo, inclusi, pare, quelli di quattro comandanti militari del Jihad. I bilanci riferiscono anche della fuga di migliaia di abitanti, in preda al panico. Vanno ad aggiungersi ai 140mila che vivono ammassati in 83 scuole ed istituzioni deU’Unrwa (Onu). Le scene sono simili a quelle viste domenica a Shujayea, popoloso quartiere orientale di Gaza city. Khuzaa è un centro agricolo alle porte di Khan Yunis usato come base di lancio, dice Israele, dei razzi sparati verso il sud dello Stato ebraico.

Il cannoneggiamento è stato incessante, ci dicono, e feroci sono stati gli scontri tra truppe israeliane e combattenti di Hamas, appoggiati da militanti di varie fazioni, islamiste e di sinistra. Combattono un po’ tutti ma non i salafisti di Rafah che, ci spiegano, non intedono partecipare alla guerra dei rivali Hamas contro Israele.

I live blog dei giornali israeliani parlano di almeno 210 uomini di Ezzedin al Qassam uccisi da quando è cominciata l’offensiva di terra. Ma pesa anche il numero dei soldati israeliani morti, 32, molti dei quali appartenenti alle unità scelte della Brigata Golani. Gli ultimi tre ieri. I palestinesi, scrivono gli stessi analisti israeliani, stanno dimostrando una buona organizzazione militare, ben superiore a quella che si attendevano a Tei Aviv.

[flagallery gid=6]Sono in difficoltà di fronte ad un esercito tra i più potenti al mondo, che fa abbondante ricorso all’aviazione e all’uso dei mezzi corazzati, eppure riescono ancora ad ostacolare i piani militari israeliani. E sono sempre in grado di lanciare razzi – anche se il loro numero è diminuito negli ultimi 2-3 giorni – e alla fine hanno raggiunto lo scopo di bloccare i voli internazionali da e per l’aeroporto di Tei Aviv (260 sino a ieri sera), con grave danno per il settore turistico israeliano.

«La chiusura dello spazio aereo è una grande vittoria della resistenza», ha commentato con evidente soddisfazione il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri. Israele è stato perciò costretto ad aprire il piccolo aeroporto di Ovda, nel Neghev, per invogliare le compagnie aeree intemazionali a non interrompere i collegamenti. Ieri non eravamo a Khuzaa, ma alle porte di Shajayea, in attesa della tregua umanitaria di due ore chiesta dalla Croce Rossa – anche per Beit Hanun – e concessa dalle due parti.

Per ore sono rimasti con i motori accesi le ambulanze e mezzi dei vigili del fuoco, un convoglio al quale poi è stato dato il via libera. I giornalisti invece sono stati fermati. Qualche fotografo è riuscito ugualmente ad entrare. Ma non avremmo visto molto. Come era accaduto già domenica scorsa, la tregua in realtà non c’è stata. I cannoneggiamenti sono ripresi subito, seguiti dall’abituale scambio di accuse tra le due parti. Tutto ciò mentre giungevano gli echi del bombardamento aereo dell’ospedale Wafa che – afferma Israele – era stato occupato da combattenti di Hamas.

Al ritorno i soccorritori hanno pronunciato una frase da far gelare il sangue: «Shujayea sembra essere stato investito da un terremoto». Dalla memoria collettiva palestinese sono riemersi i massacri del passato: Deir Yassin, Tel al Zaatar. Sabra e Shatila, i campi di Jenin e di Nahr al Bared. Nomi scolpiti nel sangue. La gente di Shujayea abbiamo avuto modo di incontrala a qualche chilometro di distanza, sul piazzale davanti all’ospedale Stufa e nei giardinetti.

Almeno 3 mila sfollati del quartiere ora vivono all’aperto nell’area occupata dalla struttura sanitaria più importante di Gaza, considerata il luogo più sicuro della Striscia. Fino ad un certo punto, però. Perché ieri sono girate voci di una «intimazione» data da Israele al personale medico dello Stufa ad abbandonare l’ospedale, poi smentite dal ministero della salute palestinese. Israele ha reagito con rabbia alla risoluzione approvata dal Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani che chiede una commissione di inchiesta intemazionale per condurre un’indagine su tutte le violazioni nella Striscia di Gaza.

Il testo è stato approvato dai 47 paesi membri e punta ad accertare i crimini di guerra commessi dall’inizio dell’operazione «Margine Protettivo». Gli Usa hanno votato contro, l’Italia, come molti altri paesi europei, si è astenuta. A favore 29 voti, tra cui quello della Russia. Secondo Tel Aviv è una congiura contro lo Stato di Israele che si sarebbe solo difeso dal lancio di razzi palestinesi.

«La decisione del Consiglio Onu per i diritti umani è una parodia e dovrebbe essere rigettata da ogni persona decente ovunque», ha commentato il premier Netantyahu. I numeri della guerra però parlano chiaro, non lasciano spazio a dubbi. Negli ultimi due giorni a Gaza, ogni ora è stato ucciso un bambino, 147 dal 7 luglio, ha denunciato ieri la vicesegretario generale Onu per gli Affari umanitari Kyung-wha Kang. «Dal 7 luglio, più di 600 palestinesi sono stati uccisi a Gaza ed altri 3.504 sono stati feriti in seguito al lancio dell’operazione militare israeliana «Protective Edge» in cui sono stati colpiti più di 2.900 bersagli in Palestina», ha affermato Kyung wha Kang intervenuta al Consiglio dei Diritti Umani. A Gaza, ha aggiunto, 443 vittime, pari a più del 74% delle persone uccise, sono civili e un terzo dei civili morti fino ad ora sono minorenni. Ieri sera era atteso un discorso in tv del leader politico di Hamas, Khaled Mashaal, che, stando alle indiscrezioni, era pronto ad offrire 24 ore di tregua unilaterale.

Non era nota la posizione di Israele. Il cessate il fuoco permanente pertanto è ancora lontano, anche se Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mäzen, lascia intendere che la proposta che ha presentato – tregua subito, seguita da cinque giorni di trattative – sta facendo progressi. Da Gaza però non ci sono conferme.

La Concordia parte e Francesco Schettino va ai party

La nave Costa Concordia lascia isola Giglio
La nave Costa Concordia lascia isola Giglio (Le foto di Ansa e La Presse)

E’ partita alla volta di Genova la Costa Concordia, la nave che con un pessimo e disastroso “inchino” del Capitano Schettino si è incagliata sulle “scole” dell’Isola del Giglio per poi arenarsi e procurare 32 morti. Il prefetto Gabrielli ha detto che “canterà vittoria solo quando saremo nel porto ligure”. Un’impresa storica mai tentata prima e costata fior di milioni di euro. Prima il raddrizzamento poi, dopo qualche mese, con l’umiltà (e la cautela) con cui operano le persone serie, il rigallegiamento per trainare la Costa nel porto genovese che si è aggiudicato “l’onore” di smantellarla. Tutto mentre l’autore del nefasto naufragio si è dato alla movida facendosi immortalare, è il caso di dire, inopportunamente, in qualche party o discoteca.

Raccontava ieri l’Ansa che “l’ultima volta che i gigliesi l’hanno vista così, la Concordia aveva sbattuto contro lo scoglio e stava percorrendo i suoi ultimi tratti di mare, prima di naufragare. Due anni e mezzo dopo, oggi è terminato il rigalleggiamento: in tutto, il relitto è riemerso di 13 metri, fino al ponte 3. Stanotte sarà l’ultima della nave sull’isola.

Ecco il risultato dell'inchino di Schettino. E lui balla...
Ecco il risultato dell’inchino di Schettino. E lui balla…

Se tutto va come deve andare – e “salvo meteoriti”, ha scherzato il capo della protezione civile Franco Gabrielli – domani inizierà il viaggio per Genova: nel primo pomeriggio il relitto scomparirà dall’orizzonte del Giglio. Sulla Concordia oggi è stata issata una bandiera blu, che significa: pronti a partire. “E’ una vecchia tradizione marinara – ha spiegato il regista dell’operazione di rimozione, Nick Sloane – La mettevano perché se un marinaio si attardava a bere nelle bettole, quando la vedeva capiva che doveva uscire”. Domani nessuno avrà tempo di attardarsi nelle bettole.

Anche perché i lavori cominceranno presto: alle 6 i controlli, alle 8.30 le prime manovre, alle 12 il via al viaggio. Il relitto sarà trainato dai rimorchiatori, a una velocità di due nodi all’ora. Arriverà a Genova sabato sera, per entrare in porto domenica. “Tutte le verifiche ci indicano che non c’è il rischio di rottura della nave – ha detto il responsabile per Costa del progetto di rimozione, Franco Porcellacchia – Dal punto di vista dell’inquinamento, riteniamo che non ci saranno grosse situazioni di sversamento in mare.

Nonostante questo, molte unità del convoglio sono adibite a intervenire se ci saranno sversamenti di sostanze inquinanti o che galleggiano. Tutto questo ci dà sufficienti garanzie che non ci siano eccessivi rischi”. Rassicurazioni che, comunque, non paiono far dormire tranquilla il ministro all’ambiente francese, Ségolène Royal, che, ha spiegato, al momento del passaggio della Concordia al largo della Corsica sarà su una nave per “mettere ancora di più sotto pressione le autorità italiane”.

La risposta, è arrivata dal ministro italiano all’ambiente, Gian Luca Galletti. “L’ultima telefonata con il ministro Ségolène Royal l’ho avuta domenica ed ho fornito tutte le informazioni. Noi comunque vigileremo che durante il viaggio tutto vada secondo le prescrizioni”. Poi la stoccata: “Abbiamo fatto un’analisi preventiva delle acque che attraverseremo, così nessuno un domani può addebitarci qualche eventuale responsabilità che invece è di altri”. Non si sa mai. Sul rispetto dell’ambiente Gabrielli non ha dubbi.

[flagallery gid=5]Né sulle precauzioni per ciò che c’è da fare né sui risultati di quanto è stato già fatto: dall’inizio delle operazioni, “dalla nave sono fuoriuscite circa 105 mila tonnellate di acqua, di liquidi”, ha spiegato prima di lasciare la parola alla direttrice dell’osservatorio ambientale, Maria Sargentini, che ha sottolineato: “L’unico dato che risulta più elevato riguarda una sostanza di derivazione della plastica, ma non ha rilievo da un punto di vista della contaminazione” delle acque. Alla vigilia della partenza della Concordia al Giglio tutto appare normale.

Sono pochi quelli venuti apposta a dare un’ultima occhiata alla nave. E qualcuno è tornato ad abbronzarsi davanti al relitto. E’ fiducia, o forse scaramanzia. I gigliesi non spiegano quale delle due. Di sicuro sanno che c’è stato un prima e ci sarà un dopo Concordia. Adesso sanno raccontare benissimo come era l’isola una volta. Ma nessuno si azzarda a ipotizzare come sarà da domani, dopo che il relitto sarà scomparso dall’orizzonte”.

Nelle foto dell’Ansa e Lapresse le immagini del “lungo” viaggio della Cocordia. E c’è anche chi ha deciso di convolare a nozze il giorno della partenza. In questi anni la piccola isola del Giglio, prima conosciuta da pochi, è diventata tristemente l’isola più famosa del mondo ma anche meta di turisti e curiosi. L’epitaffio che rimarrà inciso nella memoria dei gigliesi e di tanti cittadini del mondo è: “Qui riposano 32 uomini donne e bambini uccisi da uno sprovveduto e disastroso inchino di un capitano ballerino”. Le fasi di queste ultime ore è seguita in diretta da centinaia di giornalisti ed emittenti di tutto il mondo.

MH17, i filorussi consegnano i Flight Data Recorder ai malesi. Un ribelle ammette lo "shot down". «Sembravano parà»

Miliziani russi sorvegliano il vagone coi cadaveri dell'MH17
Miliziani russi sorvegliano il vagone coi cadaveri dell’MH17

I separatisti filo-russi della sedicente Repubblica di Donetsk hanno consegnato stanotte agli esperti malesi le due scatole arancioni del Boeing MH17 della Malaysia Airlines, che giovedi scorso è stato abbattuto da un missile sopra i cieli dell’Ucraina orientale. I ribelli hanno annunciato il cessate il fuoco nel raggio di 10 km dal luogo dell’incidente per facilitare l’inchiesta dell’Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza Europea (Osce) sulle cause della tragedia.

La consegna dei Flight Data Recorder alle autorità malesi è avvenuta nel quartier generale dei ribelli a Donetsk davanti a molti giornalisti. “Abbiamo deciso di dare le “scatole arancioni” nelle mani degli esperti della Malesia”, ha detto l’autoproclamato “premier” dei ribelli, Alexander Boradai, informando anche del cessate il fuoco nei pressi di Hrabova.

I ribelli consegnano ai malesi i Flight Data Recorder del MH17
I ribelli consegnano i Flight Data Recorder del MH17

Borodai ha anche annunciato che il treno coi vagoni refrigerati dentro cui sono state riposti i resti delle vittime è arrivato a Donetsk. Il treno proseguirà per Kharkiv, distante circa 300 km. Il treno sarà consegnato per gli atti di rito agli esperti malesi ed a una delegazione olandese. A Kharkiv è stato creato un centro temporaneo che servirà ai medici dei due paesi per i primi esami e predisporre tutto il necessario per il loro trasferimento in Olanda.

Entrambe le parti hanno quindi firmato il documento che conferma l’atto di trasferimento di registratori e cadaveri. Il colonnello Mohamed Sakri del Consiglio di Sicurezza della Malesia ha riconosciuto che i due Flight Data Recorder “sono intatte e in buone condizioni, anche se leggermente danneggiate per via del terribile impatto”. Dalle registrazioni potranno emergere maggiori dettagli sulle cause del disastro, anche se gli esperti sottolineano che dall’audio “sarà difficile determinare se l’aereo è stato colpito da un missile” come sospettano gli Stati Uniti e altri Paesi.

Intanto Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della Sera ha intervistato un ribelle a Torez che conferma i sospetti occidentali che lo “shot down” del Jet è stato causato da un missile dei separatisti. «Abbiamo colpito un aereo di Kiev, ci hanno detto i nostri capi: pensavamo di affrontare i piloti ucraini atterrati col paracadute e ci siamo imbattuti in cadaveri di civili». Il soldato, che non ha fornito nome e grado ha detto ancora che «giovedì pomeriggio i nostri comandanti ci hanno ordinato di salire sui camion con armi e munizioni in quantità”.

“Pochi minuti prima, forse dieci, avevano udito un grosso scoppio nel cielo. Abbiamo appena colpito un aereo dei fascisti di Kiev, ci hanno detto, ingiungendoci di fare attenzione per il fatto che c’erano informazioni per cui almeno una parte dell’equipaggio si era lanciato con i paracadute. Erano stati visti oggetti bianchi tra le nuvole. Forse avremmo dovuto combattere per catturarli», spiega il soldato”.

[flagallery gid=4]”I corpi raccolti sono 282 (ne mancano all’appello 16), il quarto vagone resta aperto per raccogliere gli ultimi. Il soldato – scrive ancora Cremonesi nel suo reportage – insiste nello specificare che la zona resta tranquilla. «Stiamo facendo bene il nostro mestiere. Anche i commissari europei hanno dichiarato che i corpi sono conservati in modo soddisfacente, all’interno dei vagoni la temperatura è mantenuta tra lo zero e i meno cinque gradi», esclama”.

“Quindi prosegue nel racconto riferito al giorno della tragedia: «Con i miei soldati cercavo di individuare i paracadute sul terreno e sugli alberi. A un certo punto, ho visto brandelli di tela in una radura. Li ho sollevati e ho trovato il corpo di una bambina che avrà avuto non più di cinque anni. Il viso era rivolto verso terra. È stato terribile. Allora ho capito che quello era un aereo civile. Non militare. E questi erano tutti morti civili. Un gruppo di valigie scoperchiate non ha fatto che confermare la scoperta». Da allora la «Olpot» (roccaforte) è sempre rimasta sul luogo della tragedia”.

“All’inizio come prima squadra di individuazione dei cadaveri, poi per fare la guardia ai rottami dell’aereo malese, infine come sentinella ai vagoni-obitorio. Eppure i suoi miliziani non sembrano avere alcun senso di colpa e contraddicono il capo fornendo la versione ufficiale. «Ovvio che non siamo stati noi ad abbattere l’aereo. Non disponiamo di missili capaci di sparare tanto in alto. Questo è un crimine commesso dai banditi che obbediscono al governo di Kiev. Facilmente è stato un loro caccia ad abbattere il Boeing delle linee aeree malesi», commentano”.

Finora è scambio di accuse reciproche tra Russia e Occidente. Non sapremo come andrà a finire questa storia. I separatisti tra comunicati e smentite sembrano confermare l’ipotesi che ad abbattere il Jet malesiano siano stati loro. Per loro stessa ammissione, prima con le telefonate intercettate poi con le loro dichiarazioni spontanee ai media.

L'MH17 seguiva da mesi la stessa rotta. Perché abbatterlo proprio il 17? I sospetti e la puzza di servizi come a Ustica

La rotta seguita dal MH17 giorno 16 luglio
La rotta seguita dal MH17 giorno 16 luglio

Che cosa è realmente accaduto il 17 luglio scorso sui cieli sud orientali dell’Ucraina, a pochi chilometri dal confine con la Russia? E’ un mistero. E anche abbastanza fitto. In attesa che i Flight data recorder (le scatole arancioni) ritrovate oggi forniscano maggiori dettagli, l’unica certezza che abbiamo finora è che l’aereo MH17 della Malaysia Airlines, è esploso in aria coi suoi 298 passeggeri.

Partito da Amsterdam alle 10.31 – con mezzora di ritardo – e diretto a Kuala Lampur, in Malesia, il Jet aveva volato per 2 ore e 50 minuti lasciandosi alle spalle 2.443 chilometri sui 10.237 complessivi. Alle 13.21, a 10 mila metri di altezza sui cieli di Hrabove a circa 60 chilometri da Donetsk, il Boeing 777 è scomparso dai radar.

E’ stato un missile sparato da separatisti russi, oppure è possibile ci sia stata una battaglia aerea con un caccia che potrebbe essersi “nascosto” nell’ombra radar del MH17? Uno scenario che somiglia molto al caso di Ustica piuttosto che quello più recente di Smoleńsk (in Russia) dove in un misterioso incidente aereo perse la vita il presidente polacco Lech Kaczynski, che si stava recando alla cerimonia di commemorazione delle vittime dell’eccidio di Katyn, un massacro commesso dall’armata rossa durante la seconda guerra mondiale…

Tutte ipotesi che vanno vagliate e approfondite, atteso che nei campi dove si è schiantato l’aereo non sono state trovate finora tracce di armi o esplosivo. L’area è stata circoscritta dai ribelli che filtrano ogni tentativo di perlustrazione. Blindata. Nei notiziari non vediamo immagini riprese dall’alto per annotare particolari. Niente elicotteri. Ma probabilmente sono in azione i satelliti spia…

In tutta questa torbida storia c’è qualcosa che non torna. Più che dei poveri cadaveri, si sente la puzza dei servizi segreti, come quelli che operavano all’epoca del disastro di Ustica. In teoria le milizie separatiste russe avrebbero potuto abbattere l’aereo MH17 della Malaysia Airlines in qualsiasi momento.

La rotta seguita, come mostrano le immagini pubblicate sotto, è sempre la stessa da mesi. Per più volte al giorno. Andata e ritorno, attraversando gli stessi Stati e gli stessi focolai di tensione. Il Boeing MH6125 ha in programma un volo settimanale dall’Olanda alla Malesia percorrendo la stessa rotta. Ma non è soltanto la compagnia malese a coprire questa tratta. [flagallery gid=3]

C’è pure KLM che fa volare i sui suoi “giganti” sullo stesso corridoio, però con una variante che alterna da mesi: molto più a nord, per i paesi baltici. C’è da registrare che la Malaysia Airlines dopo il disastro del 17 per raggiungere Kuala Lampur non sorvola più come fino a giorno 17 la Polonia e l’Ucraina, bensì attraversa Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania.

All’altezza di Bucarest devia verso est e si immette nel corridoio del Mar nero, lambendo il nord della Turchia per poi ritrovarsi in Iran, Afghanistan, Pakistan e India fino in Malesia. I chilometri da percorrere sono più o meno gli stessi dalla tratta “originaria”: oltre 10mila.

La rotta seguita dal MH17 il giorno dopo il crash
La rotta seguita dal MH17 il giorno dopo il crash

Nel tragitto inverso, Kuala Lampur – Amsterdam viene seguita da mesi la stessa rotta da entrambe le compagnie. Ma vi sono altri voli transnazionali che sorvolano decine di volte al giorno i cieli nell’area della disconosciuta repubblica di Donetsk.

C’è da chiedersi: perché dovevano abbattere quell’aereo proprio giorno diciassette? Potevano farlo settimane o mesi prima. I ribelli filo russi sorvegliano cielo e terra ogni minuto. Si tratta dunque di un grossolano e gravissimo errore o c’è dell’altro? Ammesso che i ribelli abbiano armi capaci di raggiungere per abbattere un Jet a quella quota. Kiev e Whashington sostengono di “si” perché “glieli fornisce Mosca”. I separatisti e Putin invece negano.

Siamo a conoscenza dei tracciati radar civili, ma in quella zona operano da tempo radar militari a cui hanno accesso solo le intelligence sia russe che ucraine. In attesa di sviluppi si dovrà attendere l’esito delle registrazioni a bordo contenute nel Flight data recorder. Ma la storia puzza. Come a Ustica.

Cosa è successo a bordo del volo MH17? VIDEO

After you see the route followed until the tridimensional explosion

VIDEO DESCRIPTION – Last Video Footage Taken On Flight MH17 Before Shot Down

Repost from Passenger Md Ali Md Salim or otherwise known as Halu Satonaka (@masa1777 on instagram) who was on his way home to Malaysia from Amsterdam, Netherlands.

The last glimpse of the downed Malaysia Airlines Flight MH17 was captured by Malaysian passenger Md Ali Md Salim moments before departure.

The 14-second video, which was uploaded on his Instagram account, showed other passengers stowing their luggage in the overhead compartment.

In the caption of the Instagram video, the 30-year-old seemed to have expressed his jitters flying home.

“Bismillah… #hatiadasikitgentar (In the name of God… feeling a little bit nervous)”, read the caption.

An announcement, believed to be the voice of the pilot, could be heard in the background. “At the moment, we are on the final stages of boarding and cargo loading. Once again, please ensure all your phones are off for the flight to…” said the pilot, before the video ended.

Md Ali, a psychology PhD student at Erasmus University Rotterdam, was reported to be heading home to celebrate the upcoming Hari Raya in Muar, Johor.

Flight MH17 disappeared from radar screens in eastern Ukraine at around 1415 GMT, hours after the Boeing 777, bound for Kuala Lumpur, had taken off from Amsterdam’s Schiphol airport.

It is believed to have been accidentally shot down 50km from the Ukraine-Russia border.

Malaysia Airlines, in a statement, confirmed that there were a total of 298 passengers and 15 crew members on board.

Among them were 43 Malaysians including the crew members and two infants.

Source:
Web
FlightRadar24.com
ApPress and other agency
https://www.youtube.com/channel/UCg2gya9_OKera7nILAxRwtw

Elaborazione di secondopianonews.com

Ecco l’uomo sospettato di aver abbattuto l’MH17. Si chiama Igor Girkin, il “tiratore” dell’intelligence russa

Igor Girkin, il "tiratore"
SOSPETTATO Igor Girkin, detto “Strelkov”il tiratore

Potrebbe essere stato lui a dare due giorni fa l’ordine di abbattere l’aereo civile MH17 della Malaysia Airlines in Ucraina. Il suo nome è Igor Girkin detto anche “Strelkov” (il tiratore), colonnello a capo dei ribelli filorussi che operano a Donetsk, nell’Ucraina sud orientale. Kiev sospetta sia partito da lui l’ordine di sganciare il missile terra aria che ha abbattuto il velivolo uccidendo le 298 persone a bordo.

Classe 1970, Igor Girkin è un membro del Gru l’agenzia di intelligence militare russa, erede del Kgb. Patriota russo, volontario e amante della storia, ha combattuto in quasi tutti i fronti caldi dove la Russia ha inviato le sue truppe. Le guerre dell’ex Yugoslavia (Serbia e Bosnia) e le due guerre civili in Cecenia. Ha combattutto anche in Transnitria, a favore dell’indipendenza di questa regione in Moldavia. Esperienze militari, a detta dei suoi detrattori, che gli farebbe portare sul groppone della coscienza “centinaia di morti”. E’ un sorta di “mercenario”, un soldato che come tutti i soldati eseguono gli ordini e uccidono senza farsi tante domande né scrupoli.

Di Girkin il tiratore si parla in queste ore per via delle “provocazioni” lanciate proprio dal principale sospettato sul sito Rusvesna.

[flagallery gid=2]Provocazioni “choc” che “Shooter” ribadisce a più riprese. Igor – che pochi minuti dopo l’abbattimento del MH17 aveva postato su un social russo un video, poi cancellato , in cui esultava per aver abbattuto un velivolo militare dell’aviazione ucraina –  ha detto di aver ricevuto dai suoi uomini un primo rapporto sull’accaduto. “I corpi – racconta – erano privi di sangue, come se fossero morti alcuni giorni prima dello schianto”. La cabina di pilotaggio, invece, “era piena di sangue”. Un dettaglio che tuttavia potrebbe essere insussistente per via del fatto che l’aereo oltre a farmaci trasportava sacche di sangue probabilmente appartenenti agli scienziati presenti a bordo che stavano andando al convegno sull’Aids in Australia.

CHI E’ E CHE COSA FA IGOR (guarda il video in russo-english) [su_youtube url=”http://youtu.be/r2PQc8t8Ta4″]”Poi c’era un odore nauseabondo di cadaveri che è impossibile poter sentire dopo appena mezzora dalla morte, anche se fa molto caldo e giorno 17 luglio era nuvoloso, clima non caldo”.  Tesi che tuttavia non regge poiché l’esplosione in volo e il terribile impatto a terra ha in parte carbonizzato i corpi.

Afferma ancora Girkin che “le forze ucraine sono malvage e capaci di tutto. Non escludo niente, nemmeno possa trattarsi di una cospirazione a nostro danno”. Una cosa è per lui certa: “Non siamo stati noi ad abbattere l’MH17”. Sebbene le intercettazioni registrate lo smentiscano nettamente.

A meno di pensare un “complotto”, scientificamente orchestrato da Kiev, per addossare le responsabilità ai ribelli russi e incassare il sostegno dell’Occidente in una fase in cui Mosca, dopo l’annessione della Crimea, ne è uscita molto rafforzata, come rafforzato ne esce Vladimir Putin.

Magorno vs Scopelliti. Un amore sbocciato a prima vista

Ernesto Magorno alla Camera
Ernesto Magorno alla Camera

Scrive Adriano Mollo, giornalista e caporedattore del Quotidiano del Sud che «Ernesto Magorno è sempre stato un “gran cerimoniere”, ospitale. I suoi slanci di generosità a volte gli hanno fatto perdere di vista il senso della misura, superando il limite della continenza. Non si è trattenuto nemmeno di fronte a ragioni di opportunità, come dimostra la lettera inviata a Matteo Renzi per esaltare il lavoro (dovuto e pagato dal canone) dalla redazione Rai della Calabria e del caporedattore, notoriamente, fino all’avvento di Renzi, fedelissima di Maurizio Gasparri e Giuseppe Scopelliti».

L’ex sindaco di Diamante, provincia di Cosenza, (deputato Pd dal 2013) da qualche mese eretto a segretario regionale del Pd sotto la spinta dominante di Matteo Renzi, possiamo definirlo un amministratore che ama il “dialogo”, la “pace”, il “tatticismo”. Uno che potrebbe fare le trattative per la pace in Medio Oriente, tanto è diplomatico. Per intenderci, sarebbe disposto ad allearsi anche coi “peggiori avversari” se questo può tornare utile alla comunità piuttosto che alla carriera. Della serie: “Se ho un amico, dò per scontato che stia con me. Se mi trovo di fronte un nemico, cerco di allearmici per ritrovarmi alla fine con due amici, anche se uno è falso e l’altro magari non vale…”. Una transumanza che nella politica italiana e calabrese è abbastanza diffusa. In politica mai attaccare frontalmente l’avversario. Si rimarrebbe isolati. Meglio cercare “l’equilibrio”, sempre il giusto “compromesso”. Sia che si rivesta una carica politica che istituzionale. Che poi cambia poco in termini sostanziali.

[su_youtube url=”http://youtu.be/seH_msltZzU”]C’è questo video che dimostra la teoria magorniana del “politically correct” autentico. Immagini postate su Facebook da Giuseppe Scopelliti, ex presidente della Regione Calabria (ex, per la nota vicenda giudiziaria) ed esponente di spicco del Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano. Il titolo: «Ecco che cosa diceva Magorno di me», quasi a voler rimarcare gli “attacchi” dell’ex sindaco all’indirizzo dell’ex sindaco di Reggio di questi mesi. Scopelliti non ha mai creduto “nell’originalità” di questa avversione politica. E si diverte. Conoscendo il soggetto, lo sfotte, sghignazza (sempre amichevolmente). Era il 2010, anno in cui l’ex sindaco di Reggio Calabria si candidò e vinse le regionali contro l’uscente Agazio Loiero.

Magorno, da sindaco della cittadina tirrenica, in una manifestazione a sostegno di Scopelliti partecipò con una grinta da fare arrossire gli stessi promotori della candidatura di Scopelliti come si vede dal video, (in cui appaiono i manifesti della candidatura del futuro presidente e quelli dell’ex Pdl). Ernesto disse tra gli applausi a Peppe: «Vada avanti, non si preoccupi. Lei avrà il consenso, l’affetto, il sostegno, la sollecitazione anche di quelle parti che in questo momento guardano alla Calabria e dei cittadini calabresi». Un po’ come se gli eterni avversari di Berlusconi, D’alema, Prodi, Veltroni, Bersani e giù scorrendo avessero pronunciato le medesime frasi di complimenti al “principale avversario politico”. Sarebbe inimmaginabile…

Giuseppe Scopelliti
Giuseppe Scopelliti

Poi si sono ribaltate le posizioni. Magorno, non più sindaco “fiuta” Renzi e ne diventa in Calabria uno dei “principali” sostenitori. Dopo un traumatico commissariamento durato oltre tre anni, il Pd sceglie con le primarie proprio lui, intanto nominato deputato grazie all’odiato “porcellum”. Diventato segretario regionale “avende titulu” si sente in “dovere” di prendere posizioni contro la giunta regionale guidata da Scopelliti, il suo “amico-nemico” che forse, come si interroga Mollo, gli fa pervenire qualche spicciolo per contribuire al Festival del Peperoncino di Diamante. Gli attacchi arrivano a giorni alterni. Aumenta l’intensità quando il parlamentare si accorge che Scopelliti è messo fuori gioco.

Peppe non dà credito. Ne ride e continua a divertirsi sapendo che presto la “debolezza” di Magorno porterà il Pd ad essere “nuovamente commissariato” per i “pasticcioni” commessi sotto la sua gestione, vedi ad esempio le primarie, gli scontri intestini al Pd, l’assenza di una posizione chiara sul futuro del partito e in coda tante altre cose, non ultima la debacle al comune di Rende.

Magorno con Renzi visti da Grattachecca
Magorno con Renzi visti da Grattachecca

Delle “timidezze” di Ernesto avevo già avuto l’onore di occuparmene su queste pagine. In una intervista “non autorizzata” si profilava quello che il segretario del Pd avrebbe denunciato “ufficialmente” quattro mesi più tardi: ossia, “l’inciucio”, il fatto che i consiglieri del suo partito non volevano andare alle urne. Una cosa satirica con tanto di atmosfera…, ma a rileggerla oggi è come se riflettesse il “reale”…

Continua Mollo su suo giornale che «nello stesso periodo Scopelliti ha ricevuto altre affettuosità da esponenti di primo piano del centrosinistra calabrese.

La più clamorosa quella di Nicola Adamo, in rotta con Agazio Loiero e che per questo uscì da partito insieme a Peppe Bova, che il 28 novembre 2010, organizza a Rende un’iniziativa sulla sanità che un suo stretto collaboratore così la sintetizzò:

«Vogliamo accreditarci come l’unica opposizione in consiglio regionale». Era un’iniziativa sul piano di rientro, ci fu una stretta di mano, definita «dell’inciucio» sotto i flash dei fotografi con uno Scopelliti che disse, raccontano le cronache del tempo, sì al dialogo ma «solo con gente come Adamo». E non con chi è ora «il vero problema», riferendosi a Loiero e ai «i sette samurai, (i consiglieri regionali del Pd) che vanno a promettere chissà cosa per gli ospedali di montagna». Oggi Ernesto Magorno e Nicola Adamo, su fronti opposti, lavorano a costruire le trame per la candidatura alla presidenza del centrosinistra, il primo utilizza Massimo Canale a fini di battaglia politica per fare fuori Oliverio, il secondo, invece, è il braccio armato di Mario Oliverio”.

MH17 abbattuto da missile, ecco l’ultimo video a bordo


Uno dei passeggeri del volo MH17 della “Malaysian Airlines” abbattuto in Ucraina dai filorussi, prima del decollo ha postato un video sui social realizzato a bordo probabilmente con uno smartphone.

Durante questi interminabili 15 secondi di sente il comandante dare disposizioni ai passeggeri che sono intenti a posizionare i bagagli a mano negli apposti scompartimenti e ad allacciare le cinture di sicurezza.

Il Boeing è in fase di rullaggio. L’allineamento in pista e il successivo decollo da Amsterdam per Kuala Lampur, in Malesia, è previsto da lì a qualche minuto.

Dopo qualche ora, ad un altezza di 10mila metri e a circa 800 chilometri orari, sui cieli a sud ovest tra il confine Russo-Ucraino un missile terra aria sgangiato (Un video di intercettazioni inchioda Mosca) dai separatisti ha spezzato per sempre la vita di queste povere persone innocenti, tra cui 80 bambini e un centinaio di scienziati che stavano recandosi in Australia, al congresso internazionale sull’Aids.

Strage aerea in Ucraina, tra le vittime 100 scienziati. Morto Joep Lange, alfiere della lotta all'Aids

Joep Lange, alfiere della lotta all'Aids morto insieme ad altri 100 scieziati nel disastro aereo in Ucraina
Joep Lange, alfiere della lotta all’Aids morto insieme ad altri 100 scienziati nel disastro aereo in Ucraina

Più di 100 scienziati, esperti nella lotta all’Aids, sono morti nel tragico disastro aereo in Ucraina costato la vita a 298 persone tra cui 80 bambini. I ricercatori sarebbero dovuti andare alla conferenza mondiale sull’Hiv a Melbourne, in Australia che doveva essere in programma in queste ore.

Nell’incidente, causato da un missile sganciato dai separatisti russi in Ucraina (Leggi l’intercettazione che li incastra) ha perso la vita tra gli altri, Joep Lange, ex presidente dell’Associazione Internazionale per la Lotta contro l’Aids e pioniere della lotta all’Hiv.

Lange ha portato un enorme contributo allo studio di terapie sperimentali e la prevenzione contro la trasmissione del virus da madre a figlio.  Joep è ha dedicato tutta la sua vita al trattamento dell’HIV in Asia e in Africa”,  ha detto David Cooper, capo di un organismo di ricerca del Kirby Institute.

La notizia è stata confermata dall’Organizzazione Internazionale per l’AIDS. Finora, tuttavia, non ha fornito un elenco esatto delle vittime.

Tra le vittime anche Glenn Thomas, un ex giornalista della BBC e portavoce di lunga data per l’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

La comunità scientifica internazionale concorda sul fatto che la perdita dei leader della lotta contro l’Aids “avrà conseguenze globali. La loro conoscenza è insostituibile”, ha riconosciuto il prof. Richard Boyd della “Monash University“, la più grande università australiana con campus in oltre che nel continente, in Malesia, Sud Africa, India e anche in Italia.

Precipita l’MH17, la maledizione della Malaysia Airlines continua.

Il disastro aereo civile Malaysia Airlines MH17 abbattuto da un missile
Il resti dell’aereo della Malaysia Airlines

La maledizione della Malesyan Airlinenes si ripete. Un boeing 777 della compagnia malese con 295 persone a bordo si è schiantato al confine sud est tra l’Ucraina e la Russia.

Era partito da Amsterdam e diretto a Kuala Lampur, in Malesia. Il ministero dell’Interno Ucraino, secondo quanto appreso da Interfax, una delle maggiori agenzie di stampa dell’Est, ha riferito che l’aereo sarebbe stato “abbattuto da missile terra-aria”.

Non ci sono conferme in questa direzione ma per molti italiani il ricordo terribile è quello di 34 anni fa, quando il DC9 dell’Itavia è precipitato nel mare di Ustica con 81 persone abbattuto da un missile francese.

Nessuna conferma sul missile della Malaysia Airlines, quanto una certezza molto inquietante:  Il volo con 300 persone a bordo era l’MH17,  (un numero, un programma…) e si è schiantato, ironia della sorte,  oggi, 17 luglio 2014.

Il volo malesiano era partito dalla capitale olandese poche ore fa e doveva atterrare alle 5 di domattina a Kuala Lampur, grosso aeroporto da cui circa tre mesi addietro decollò un altro aereo maledetto, l’ormai noto MH370, diretto a Pechino, le cui tracce radar si persero dopo 40 minuti dal decollo.

Ancora oggi continuano le ricerche da parte delle autorità malesi australiane e cinesi. Finora non è stato ritrovato nemmeno un frammento aereo. Si presume che l’MH370 sia precipitato nel’Oceano indiano meridionale con i suoi 239 passeggeri, anche se sulla scomparsa prevalgono, a questo punto, forse a ragione, le tesi complottiste.

Lo schianto al suolo del MH17, come si vede da immagini, deve essere stato terribile. In rete vi sono molte foto dei corpi dilaniati dal violentissimo impatto. Se ne raccomanda la visione ad un pubblico maggiorenne. Si dovranno accertare le cause del tragico incidente e se sia fondata l’ipotesi del missile terra aerea.

SAREBBE STATO UN MISSILE RUSSO AD ABBATTERE L’MH17 DELLA MALAYSIA AIRLINES IN UCRAINA

Il boeing della Malaysian Airlines MH17 sarebbe stato abbattuto da un missile russo. A confermarlo è una intercettazione tra due ufficiali dell’intelligence russa in Ucraina, che ignari di essere ascoltati di fatto si inchiodano alle loro gravissime responsabilità insieme ai piloti che hanno eseguito i loro ordini.

ECCO IL VIDEO CHE INCASTREREBBE MOSCA

Secondo i servizi segreti ukraini (SBU) l’aereo malese è stato abbattuto dai militanti filo-russi, che sono di stanza presso la stazione vicino a Czernuchino, nella regione di Luhansk. Il servizio di sicurezza fonda le sue convinzioni su alcune intercettazioni dei separatisti russofoni subito dopo il crash del volo della Malaysian Airlines. Le registrazioni audio, sono state presentate nel corso di una conferenza stampa. La conversazione intercettata è tra due ufficiali del “Gru” (l’intelligence russa) che parlano di quello che è appena successo. Il primo è uNO 007  russo in servizio in Ucraina. Il secondo un colonnello. “I due ufficiali affermano di aver abbattuto un aereo sul territorio dell’Ucraina. Quando sono arrivati ​​lì, si sono resi invece conto di aver abbattuto un aereo civile”, ha detto il capo dei servizi segreti ucraini. l’ufficiale di Kiev nel corso dell’incontro con la stampa ha detto che “abbiamo a che fare con un crimine disumano. I militari della Federazione Russa che hanno commesso questo crimine subiranno gravi conseguenze”. Le conversazioni, come si può ascoltare, sono in russo, “ma con un accento non moscovita”.

Nel primo dialogo si ascolta Igor Bezler (nickname Bies): “Hai appena abbattuto [un aereo]… Sono andati a fotografare”. L’ufficiale russo è uno dei leader della Repubblica popolare di Donetsk. La registrazione secondo fonti ucraine pare sia stata effettuata 20 minuti dopo l’abbattimento del velivolo.

Dopo che Bezler (Bies) dice: “Abbiamo appena abbattuto l’aereo…”, si sente il colonnello W. Geranin rispondere: “E i piloti!? Dove sono i piloti?” Ribatte Bezler (Bies): “Sono andati a cercare il relitto dell’aereo abbattuto per fotografarlo”. Di nuovo il colonnello Geranin: “Quanti minuti fa [Sono andati a fotografarlo?]”. Bezler” (Bes) “Circa 30 minuti fa”.

Questa altra intercettazione è tra due miliziani “Major” e “Grek” subito dopo un sopralluogo nel campo dove si è schiantato il Boeing: 

“Major”: Queste sono persone di Chernukhin che mostrano l’abbattimento dell’aereo. Dal punto di controllo Chernukhin. Quei cosacchi che hanno sede in Chernukhino.
“Grek”: Sì, Maggiore.
“Major”: L’aereo è esploso in aria. Nella zona di Petropavlovskaya. I primi “200” (morti). Abbiamo trovato i primi “200”. Civili!.
“Grek”: Bene, lei cosa ha lì?
“Major”: Porcaccia, loro [i morti] sono al 100% passeggeri civili dell’aereo.
“Grek”: Ci sono molte persone là?
“Major”: E’ un inferno! I detriti sono caduti nei giardini delle case.
“Grek”: Che tipo di aereo?
“Major”: Non ho accertato questo. Non sono stato a guardarlo. Sto solo osservando la scena in cui sono caduti i primi corpi. Ci sono i resti di supporti interni, sedili e corpi.
“Grek”: C’è qualcosa lasciata dall’arma [tracce del missile tra i detriti]?
“Major”: Assolutamente niente. Articoli civili, medicinali, asciugamani, carta igienica.
“Grek”: Ci sono documenti?
“Major”: Sì, uno studente indonesiano. Da una università di Thompson”.

Phone tapping in english

First tapping:

Igor Bezler: We have just shot down a plane. Group Minera. It fell down beyond Yenakievo.
Vasili Geranin: Pilots. Where are the pilots?
IB: Gone to search for and photograph the plane. Its smoking.
VG: How many minutes ago? IB: About 30 minutes ago.

Second tapping

“Major”: These are Chernukhin folks show down the plane. From the Chernukhin check point. Those cossacks who are based in Chernukhino.
“Grek”: Yes, Major.
“Major”: The plane fell apart in the air. In the area of Petropavlovskaya mine. The first “200” (code word for dead person). We have found the first “200”. A Civilian.
“Greek”: Well, what do you have there?
“Major”: In short, it was 100 percent a passenger (civilian) aircraft.
“Greek”: Are many people there?
“Major”: Holy sh__t! The debris fell right into the yards (of homes).
“Greek”: What kind of aircraft?
“Major”: I haven’t ascertained this. I haven’t been to the main sight. I am only surveying the scene where the first bodies fell. There are the remains of internal brackets, seats and bodies.
“Greek”: Is there anything left of the weapon?
“Major”: Absolutely nothing. Civilian items, medicinal stuff, towels, toilet paper.
“Greek”: Are there documents?
“Major”: Yes, of one Indonesian student. From a university in Thompson

Gianni Vattimo: “Israele peggio di Hitler. Con la scusa dell’olocausto ha fatto un genocidio”

Gianni Vattimo | vattimo israele hitler
Gianni Vattimo

La guerra tra Israele e Palestina è entrata prepotentemente del dibattito italiano con la durissima quanto inedita posizione del professor Gianni Vattimo, il filosofo del “pensiero debole” che si è schierato apertamente con Hamas accusando Israele di essere uno “Stato canaglia bastardo, nazista e fascista. Peggio di Hitler”.

Stato che in Medio Oriente “sta compiendo un genocidio contro donne e bambini”, nell’indifferenza generale e la “complicità dei media italiani”. Il filosofo ha gettato una “bomba” verbale di una potenza inaudita all’indirizzo di Israele proprio mentre, saltata la tregua, continua la pioggia missili e razzi da ambo le parti.

Contattato dalla “Zanzara” trasmissione radiofonica condotta da Giuseppe Cruciani, il filosofo non le ha mandate a dire e ha difeso a spada tratta i palestinesi che sono costretti a arrangiarsi con “armi giocattolo”. Vattimo, nella telefonata, abbastanza seriosa, come si può ascoltare dal video, afferma che contro Israele occorre fare la “resistenza” costruendo una sorta di “brigate internazionali” in grado di affermare il diritto ad esistere della Palestina.

“Come in Spagna, in Israele c’è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero”. Giudizi severi contro la “prepotenza” del governo israeliano, ma non contro gli ebrei sparsi nel mondo.

“In Italia moltissimi ebrei sono razionali. Nel mondo sono tutti antisionisti”, ha affermato Vattimo che ha avuto in studio il contraddittorio di Cruciani e David Parenzo. Il professore, le cui posizioni anti israeliane le ha espresse più volte,  è convinto che le armi in dotazione di Hamas, l’organizzazione terroristica sorta per difendere i territori palestinesi occupati da Tel Aviv, siano armi giocattolo, “razzetti per bambini”. Poi, i missili da Gaza verso lo Stato di Israele – ha detto – “non hanno ucciso nessuno”.

E per contribuire ad una “guerra paritaria”, lancia un appello per fornire ai palestinesi “armi vere”. Il noto filosofo italiano alla domanda di Cruciani se sparerebbe contro gli israeliani ha risposto senza indugio di si: “Certo che sparerei, ma purtroppo non sono capace perché non ho fatto il servizio militare”. “Sono vent’anni che i palestinesi, scacciati dalla loro terra, sono genocizzati con la scusa dell’olocausto. Siamo di fronte a un olocausto al rovescio perché Israele sta sterminando i palestinesi”.

La rappresaglia di Tel Aviv dopo il ritrovamento dei tre giovani israeliani uccisi per mano di Hamas, ha causato circa 200 morti, quasi tutti civili, tra cui molte donne e bambini. Nei raid – da ciò che filtra dalla poca informazione “non convenzionale” – sarebbero stati distrutti interi quartieri a Gaza.

“Questi – sottolinea Vattimo – hanno fatto peggio di Hitler: hanno bombardato ospedali e cliniche; hanno ucciso bambini”, riferendosi evidentemente ai missili lanciati oggi da Israele sulla spiaggia di Gaza uccidendo quattro adolescenti che stavano giocando a palla. Insomma, una telefonata destinata a suscitare molte polemiche e a far discutere. Intanto la comunità ebraica nazionale ed europea ha espresso sdegno e forti critiche alle durissime parole del filosofo.  Il prof. qualche anno fa aveva già sollevato polemiche per gli stessi pensieri e sullo stesso e contrastato argomento.

COSA DICEVA VATTIMO  NEL 2006

“Se lo Stato d’Israele è un «danno collaterale» dello sterminio nazista”
Di Gianni Vattimo
La Stampa 5 settembre 2006

“Ho in mente una frase di George Steiner, grande intellettuale ebreo che ha insegnato nelle università di mezzo mondo. Non so se la citazione sia esatta, attendo eventualmente correzioni e smentite. Dice: il danno più grave che ci ha fatto lo sterminio nazista degli ebrei è stato la nascita dello Stato di Israele. Credo che molti intellettuali ebrei non sionisti – per esempio, un uomo come Cesare Cases – pensassero lo stesso. Ma mi viene anche in mente che la frase di Steiner, se è esatta e se è sua, sia solo un caso specifico di un fenomeno più generale, il cui modello si trova per esempio nel giudizio di Adorno su Hegel: secondo cui mentre per Hegel, conformemente alla sua visione dialettica del reale, solo «il tutto è il vero», oggi vale la tesi opposta: il tutto è il falso.

È, si può dire, un estremo effetto dialettico, nel senso in cui la dialettica implica rovesciamento (ma, stavolta, senza sintesi finale). Il tutto è diventato falso – idealmente, logicamente – quando la totalizzazione del mondo si è fatta realtà. Così Kant e tanti altri pensatori, anche Hegel, hanno desiderato che si costituisse uno stato cosmopolitico, una sorta di governo unico mondiale che avrebbe garantito la pace. Adorno, con buone ragioni, considerava che la «totalizzazione» del mondo fosse ormai una realtà attraverso la pervasiva presenza dei mass media, la mondializzazione dei mercati, l’omologazione dei gusti e dei desideri. E trovava che questa situazione era il rovescio di ogni ideale di verità e di libertà. Anche Heidegger ragiona in modo analogo, seppure in termini diversi: l’ideale metafisico di una razionalità universalmente valida diventa oggi realtà, più o meno come per Adorno, e questo conduce alla fine della metafisica.

La rivoluzione russa diventata stalinismo è, ovviamente, il culmine emblematico di questo esito. E Israele che diventa uno Stato non sarà un caso di utopia realizzata che perde la sua verità, il suo valore ideale? Leggo il romanzo di Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra – un vastissimo affresco dei valori della cultura ebraica, che commuove e fa pensare, e mette in crisi le mie convinzioni politiche antiisraeliane.

Ma se rifletto, mi appare chiaro che la ricchezza di quella cultura che Oz esprime si è costruita nella diaspora, nella lunga storia della dispersione delle tribù d’Israele nel mondo dei gentili, che le hanno perseguitate e offese tanto a lungo. Comunque è da quella diaspora che viene la ricchezza culturale e intellettuale di Israele. Quella che tanti di noi ammirano e amano. Ma non mi commuove affatto la cultura dell’Israele di oggi. Non vorrei esagerare, ma le discoteche di Tel Aviv (che Dio le conservi, non voglio vederle bombardate dai razzi Katiuscia) non sono diverse da quelle di Las Vegas, il paesaggio della Palestina mi emoziona per la sua storia millenaria, se no tanto vale andare in Florida.

Del resto, anche la storia delle rivoluzioni nazionali dell’Ottocento europeo è andata nella stessa direzione. Era importante che gli italiani si sentissero un «popolo di santi, di poeti, di navigatori» quando si trattava di combattere contro lo straniero oppressore. Poi, a unificazione avvenuta, lo slogan è diventato una delle tante ridicole retoriche mussoliniane, contro cui persino la sguaiataggine secessionista della Lega rivendica i propri giusti diritti”.

Renzi, le riforme e la presa della Bastiglia 225 anni dopo

Matteo Renzi
Matteo Renzi

Roberto Turno per il Sole 24 ore (11 luglio 2014)

Da lunedì il risiko delle riforme istituzionali sui banchi dei senatori in aula a palazzo Madama. Dopo altri sette giorni la riffa del decreto Competitività aggredito in commissione (sempre al Senato) da 1.700 emendamenti. E quasi negli stessi giorni l’assalti alla diligenza alla Camera per cercare di frenare le lobby contro il gigantosauro della burocrazia italiana. Di promessa in promessa, di sfida in sfida, Matteo Renzi non se ne perde una. Tutte le settimane, per il suo Governo delle strette intese che naviga ormai verso i 150 giorni di vita, sono quelle decisive. La prossima, da lunedì 14 luglio, 225 anni esatti dalla presa della Bastiglia (ma era martedì…) a Parigi, sarà un’altra data che il premier-ex sindaco terrà a memoria a lungo. Forse.

decreti scadenza governo
I decreti in scadenza

Dalle promesse ai fatti
Le giornate di passione di un Governo con un occhio (molto, molto attento) agli affari e alle auspicate concessioni europee, e l’altro verso i numeri di un’economia che non cresce e dei mercati che davvero non ci premiano, non finiscono mai. Non ha fatto a tempo Matteo Renzi a ri-annunciare la riforma della Pubblica amministrazione per disegno di legge – così, tanto per rinverdire l’effetto speranza e duplicare appunto l’annuncio un mese dopo – che il suo Gabinetto deve rituffarsi nell’amaro tran-tran di tutti i giorni della politica nazionale e delle beghe di casa nostra. Vicende emiliane incluse, che tanto agitano le acque del Pd non ancora del tutto occupato dal renzismo. Insomma, a parte le rassicurazioni che di manovre in agguato non ce ne sono (e chissà…), certo è che la disoccupazione che non cala e l’economia che continua a faticare parecchio, non sono un buon viatico per il Governo e le sue iniziative più o meno in cantiere. Dai sogni e dalle promesse, insomma, bisogna passare ai risultati. E presto, come sa bene Renzi, consapevole che solo quelli potranno rinverdire la luna di miele con gli italiani.

Presa della Bastiglia
Presa della Bastiglia

Cosa bolle in pentola
Risultati, dunque. E riforme: vere, scritte nero su bianco. Con tanto di leggi approvate e di benefici e risultati concreti per gli italiani. Sia chiaro: non quei provvedimenti scritti sull’acqua, traditi dai 752 decreti attuativi mai arrivati al traguardo dal professor Monti in poi. Giusto quello che da lunedì, nell’anniversario della presa della Bastiglia, Matteo Renzi e la sua squadra dovranno cercare di cominciare a incassare. Con le riforme istituzionali, che da lunedì sono in aula al Senato. Non ancora con la legge elettorale, che resta uno dei misteri gloriosi del patto col Cavaliere. Poi ci sono appunto i decreti legge: quello sulla Pa e quello sulla competitività, entrambi in commissione, il primo alla Camera e il secondo al Senato, ma che una settimana dopo vanno entrambi in aula a Montecitorio e a palazzo Madama.

Chi rema contro
Beninteso, non manca altra carne al fuoco. Come il cognome della madre da dare ai figli (aula di Montecitorio) e cooperazione internazionale (idem). E gli affari minori sempre alla Camera, essendo il Senato in tutt’altre faccende affaccendato: le riforme istituzionali, col Senato che si auto-cancella. Vuoi vedere che l’ex sindaco quasi ce la fa anche contro quei giornalisti senatori che di qua e di là remano contro?

Diabete, il Regno Unito apre al trattamento sviluppato dall’italiano Francesco Rubino

Il Prof. Francesco Rubino illustra la sua teoria
Il Prof. Francesco Rubino illustra la sua teoria

LONDRA – Grazie alla chirurgia bariatrica per la cura del diabete di tipo 2 e alle recenti tecniche sviluppate dal medico italiano Francesco Rubino, centinaia di migliaia di diabetici non obesi in Gran Bretagna potranno avere accesso al Sistema sanitario nazionale inglese.

Sono queste le nuove linee guida del prestigioso organismo “National Institute of Health and Care Excellence” (NICE), il quale suggerisce, alla stregua degli ottimi risultati ottenuti finora dalla chirurgia bariatrica su pazienti “normali”, di “valutare” il trattamento a carico dello Stato per pazienti diabetici non in sovrappeso nell’ambito delle attività del National Health Service (NHS), che allo stato attuale garantisce la sala operatoria soltanto a pazienti “over size”, ossia con un indice di massa corporea (BMI, Body mass index) superiore a 40 punti, secondo una scala di riferimento scientifico.

Le nuove linee guida del Nice riducono a 30 il livello di BMI minimo per il quale si deve raccomandare la chirurgia nei pazienti con diabete (nel resto del mondo è 35). Questo potrebbe significare che centinaia di migliaia di pazienti potrebbero essere considerati per il trattamento di chirurgia bariatrica.

I dati in possesso del National Diabetes Audit dicono che negli ultimi dieci anni i malati diagnosticati con il diabete di tipo 2 sono il 71% del totale per questa patologia e che quasi la metà (47%) ha un BMI superiore a 30. Questo significa aprire le porte del sistema sanitario inglese a circa 800mila persone affette da diabete di tipo 2.

Il King's College di Londra dove Rubino dirige la Cattedra sulla Chirurgia bariatrica
Il King’s College di Londra dove Rubino dirige la Cattedra sulla Chirurgia bariatrica

Il NICE, l’Agenzia governativa per l’eccellenza clinica in Gran Bretagna, si occupa di stabilire le linee guida fondate su evidenza clinica, indicando gli interventi che il Sistema Sanitario inglese potrebbe garantire ai cittadini. Dato il prestigio dell’Istituzione e l’assenza di simili Agenzie governative in altri paesi, le linee guida NICE sono spesso utilizzate da altri sistemi sanitari europei, dunque in Italia dove le stime sui malati di diabete sono all’incirca come quelle inglesi: 3 milioni. Bisognerà attendere il ministero guidato da Beatrice Lorenzin per capire se il nostro Paese seguirà questa strada.

La chirurgia bariatrica è la nuova frontiera per la cura del diabete di tipo 2 che è stata negli ultimi anni sviluppata e sperimentata con successo dal professore calabrese Rubino, il quale ha dimostrato alla comunità scientifica internazionale che con questo trattamento “salvavita” – prima riservato ai soli pazienti obesi – si è in grado di rimettere la malattia indipendentemente dalla chirurgia applicata per la perdita di peso.

Proprio al King’s College di Londra, per rafforzare lo sviluppo di questa terapia, è stata istituita lo scorso gennaio la prima cattedra universitaria al mondo per la chirurgia bariatrica. Cattedra presieduta dal professor Francesco Rubino che per anni ha operato negli Stati Uniti dedicando ampi studi a questa tecnica oggi molto apprezzata dalla comunità scientifica di tutto il mondo. Quest’ultimo sviluppo rappresenta una ulteriore evidenza di come sia aumentata la considerazione e lo spessore accademico-clinico della chirurgia negli ultimi 10 anni.

NiceAgli inizi di Luglio sulla prestigiosa pubblicazione medica “Diabetes” – l’organo ufficiale della American Diabetes Association (ADA) e principale rivista scientifica diabetologica – ha presentato uno studio basato sulle tecniche di Francesco Rubino (leggi qui il suo commento in inglese scritto insieme Stephanie A. Amiel) che dimostra come il bypass gastrico (gastric bypass) sia capace di indurre la proliferazione di cellule beta (quelle che producono insulina) nel pancreas.

«I risultati dello studio – spiega il medico italiano – hanno diverse implicazioni:
– contribuiscono a spiegare la ragione della drammatica efficacia di questa chirurgia nel diabete di tipo 2;
– suggeriscono che l’intestino possa giocare un ruolo chiave nella regolazione delle cellule beta-pancreatiche (attraverso meccanismi neuro-ormonali) e quindi aprono anche alla fascinosa prospettiva di poter usare questi meccanismi per la rigenerazione delle cellule beta e quindi di nuovi approcci anche nel trattamento del diabete di tipo 1 (non necessariamente attraverso un intervento chirurgico ma per esempio attraverso lo sviluppo di farmaci che abbiano come target questi meccanismi intestinali)».

«In sostanza, – aggiunge Rubino – lo studio rappresenta una ulteriore conferma del fatto che i meccanismi d’azione del bypass gastrico sul diabete sono indipendenti dalla perdita di peso». Questo è stato dimostrato per la prima volta da uno studio effettuato dal prof. Rubino di cui proprio quest’anno ricorre il decimo anniversario della pubblicazione.

Nella copertina di "Diabetes" Oskar Minkowski uno dei precursori della lotta al Diabete citato nel commento di Francesco Rubino e Stephanie A. Amiel
Nella copertina di “Diabetes” Oskar Minkowski, uno dei precursori della lotta al Diabete citato nel commento di Francesco Rubino e Stephanie A. Amiel

Per questa ragione, “Diabetes” gli ha chiesto di firmare un articolo al nuovo studio e di fare un punto sulle prospettive che la chirurgia apre per il trattamento del diabete. Il giornale, così come altre pubblicazioni, ha dato ampio spazio alla sua analisi dedicandogli la copertina.

«Per dare una misura delle implicazioni della chirurgia gastrointestinale, – riassume il professore – non solo come nuovo trattamento, ma anche come mezzo per comprendere una malattia di cui ancora non si conoscono le cause, nel nostro articolo abbiamo suggerito un parallelo storico molto significativo:

nel 1886, Oskar Minkowsky effettuò un intervento di pancreasectomia (rimozione del pancreas) in un cane, per studiare tutt’altra cosa, e si accorse che l’animale urinava copiosamente dopo l’intervento. Minkowsky intuì quindi la relazione fra quest’organo e il diabete. Fu in base a quella scoperta che la ricerca cominciò ad indagare il ruolo del pancreas nel diabete e si arrivò alla scoperta dell’insulina.

In maniera simile, il bypass gastrico era stato sviluppato come terapia per altra malattia (obesità), ma la dimostrazione che l’intervento ha effetti diretti sul diabete (Rubino et al; Ann Surg 2004) indica nell’intestino un organo altrettanto importante per questa malattia. Nella conclusione del nostro articolo abbiamo quindi voluto enfatizzare come, un secolo dopo Minkowsky, un intervento chirurgico potrebbe ancora una volta rappresentare la chiave per scoperte rivoluzionarie nel campo del diabete, al pari o ancora più importanti che l’insulina». Da quì si intuisce perché la copertina del numero di luglio di “Diabetes” presenta una foto di Oskar Minkowsky…

L’articolo scritto da Rubino sulla rivista dell’ADA si intitola «Is the Gut the “sweet spot” for the treatment of diabetes?» (E’ l’intestino il target ideale per la cura del diabete?). Solo alcuni anni fa sarebbe stato «impensabile» che la storica rivista scientifica dedicata al Diabete avrebbe potuto dedicare la copertina a un articolo che discute la terapia chirurgica come strategia per capire e curare il diabete. Rubino spiega ancora: «Il fatto rappresenta, anche nel simbolismo della copertina, una evidenza di come l’idea di diabete stia cambiando, anche e soprattutto in funzione delle evidenze della efficacia della chirurgia gastrointestinale».

Il professore calabrese conclude: «Sapere che la scienza moderna non considera l’intestino più solo come un tubo per la digestione degli alimenti ma invece come una vera e propria ghiandola endocrina di rilevanza per il diabete, potrebbe far capire molte cose a un pubblico di non addetti ai lavori e cioè:
– spiegare il perché la chirurgia é un approccio appropriato e ideale alla cura del diabete (e dell’obesità, quindi non semplicemente un modo per costringere a mangiar meno come i più pensano);
– indica la nuova direzione che si sta affermando nella ricerca delle cause e della cura del diabete».

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