E’ morto a Roma per un arresto cardiorespiratorio il regista Giuseppe Ferrara. Malato da tempo, era stato ricoverato al Policlinico Umberto I della Capitale. Il 15 luglio avrebbe compiuto 84 anni.
La notizia del decesso è stata data all’Ansa da fonti vicine alla famiglia. Dal Sasso in bocca a Cento giorni a Palermo, dal Caso Moro a I Banchieri di Dio, tutta la filmografia del regista nato a Castelfiorentino è sempre stata orientata al cinema civile di impegno e inchiesta sulla storia d’Italia.
CHI ERA GIUSEPPE FERRARA
La biografia del regista su Wikipedia
Giuseppe Ferrara era nato a Castelfiorentino, in provincia di Firenze, il 15 luglio del 1932. Nel 1969 fonda la cooperativa Cine 2000 per promuovere e produrre opere altrimenti bloccate dai condizionamenti dell’industria e, appunto, del potere. È anche l’anno del primo lungometraggio, Il sasso in bocca, opera innovativa sulla nascita e lo sviluppo del potere mafioso in Italia, ottenuta mescolando immagini di repertorio a ricostruzioni, senza che queste ultime prendano il sopravvento. Tradendo le regole dei più consueti film di finzione (anche e soprattutto di quelli a “sfondo storico”, come ha abilmente dimostrato Rosenstone), Ferrara priva la vicenda di un vero e proprio personaggio protagonista, facendo sì, attraverso un montaggio ordinato ma accumulatorio, che i collegamenti e i “messaggi”, se così possiamo chiamarli, derivino direttamente dalle immagini. Nel 1975 è la volta di Faccia di spia, dove l’amalgama tra fiction e documentario è meno evidente e sottolineato, a favore della prima forma.
Con l’aiuto (ed è la prima volta in Ferrara) e l’ausilio del “nome famoso” se non proprio del “divo”, Ferrara ricostruisce vari e variegati avvenimenti storici (il “suicidio” Pinelli, il colpo di Stato in Cile, l’omicidio Kennedy) tutti accomunati, secondo il regista, dall’intervento “criminale” della CIA, le cui leggi, osano gli autori, “sono quelle della mafia”. Nonostante ciò il persistente utilizzo della macchina a mano sembra essere «segno evidente che Faccia di spia assolve, anche nelle fasi di ricostruzioni di fatti in teatro di posa, la sua sostanziale funzione di documento». All’interno del film ha spazio fra le altre la figura di Alessandro Panagulis, eroe nazionale greco ucciso dal “regime dei colonnelli”, protagonista assoluto del successivo film di Ferrara. In Panagulis zei (Panagulis vive, 1977), infatti, l’equilibrio tra fiction e documentario si rompe definitivamente, poiché il film è strutturato secondo la forma consueta del plot d’invenzione, intervallato e puntellato da quelli che appaiono e sono fatti passare come documenti reali, ma che in realtà ne sono un’imitazione.
Con Cento giorni a Palermo, Ferrara torna a parlare direttamente di mafia, occupandosi dell’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, avvenuto a soli cento giorni, appunto, dal suo insediamento a prefetto del capoluogo siciliano. In quest’opera, realizzata grazie ai contributi di varie associazioni culturali, Ferrara si volge ancor più decisamente e totalmente a un cinema di fiction, costruendo però la storia attorno a una personalità divistica di tutto rispetto, quella del francese Lino Ventura. La scelta di confezionare un prodotto destinato a un pubblico più ampio, con caratteristiche che ne facilitino una riconoscibilità immediata, non è però di principio, ma «si presenta inevitabile». Novità ne avvengono anche da un punto di vista più strettamente tecnico. Qui non ci si limita all’utilizzo della sola macchina a mano, ma si sfruttano appieno tutte le possibilità offerte da più classici e tradizionali movimenti di macchina, il carrello in particolare. Tutto ciò senza strafare e abbandonarsi a «soluzioni plateali capaci di far scattare la molla del sentimento», per «continuare a proporre, pervicacemente, … i grandi legami tra mafia internazionale… la correità impunita…».
Ma è Il caso Moro (1986) a toccare i gangli vitali del lato oscuro del Paese, nella ricostruzione (otto anni dopo i fatti) di uno dei più gravi e sconcertanti delitti politici della storia repubblicana. Ormai il materiale di repertorio è divenuto per Ferrara semplice anche se arricchente supporto alla vicenda ricostruita e finzionale, mentre la rinuncia ai meccanismi hollywoodiani della suspense (ma sarebbe meglio dire della sorpresa, secondo la nota distinzione fatta da Alfred Hitchcock) si presenta qui anch’essa inevitabile in quanto «gli esiti [della vicenda sono] … conosciuti da tutti e perciò scontati in partenza». Dopo i falliti tentativi di dare il la a progetti su Roberto Calvi prima e l’attentato a Giovanni Paolo II poi, Ferrara decide di tornare al documentario affrontando il ritorno alla libertà del Nicaragua dopo la dittatura di Somoza. Approcciando, forse per la prima volta, un discorso di carattere prettamente storico, con la ricostruzione delle decennali lotte sandiniste per la libertà e l’indipendenza, il regista torna poi al passato prossimo per delineare la situazione di un paese abbandonato a se stesso e in balia dei mercenari Contras, appoggiati dagli Stati Uniti di Ronald Reagan.
Dopo le esperienze televisive di P2 Story, inchiesta sulla famigerata loggia massonica con a capo Licio Gelli, “il Venerabile” (5 puntate da un’ora ciascuna) e Il cinema cos’è, innovativo esperimento di didattica della Settima Arte sul piccolo schermo, dove Ferrara in persona, con l’aiuto di alcuni collaboratori, introduce ai segreti del linguaggio filmico e della produzione cinematografica (9 puntate trasmesse sulla RAI), il regista toscano torna nel 1987 a occuparsi delle zone grigie del mondo, questa volta puntando l’occhio sulle vite tormentate di giovani killer del narcotraffico colombiano. Più di altre, questa esperienza dà la sensazione di un impegno totale, di una nuova e completa consapevolezza del rischio, che non implica però il sottrarsi ad esso. Riprodurre la vita di tre giovanissimi assassini della criminalità organizzata sudamericana permette al regista toscano di suggerire cose riguardanti il proprio Paese che sarebbe stato impossibilitato a dire se si fosse trovato a narrare una storia sul posto.
L’omertà, il terrore, la paura sono gli stessi della popolazione tenuta sotto scacco dal potere mafioso e, non solo, la condizione dei tre baby antieroi sembra riflettere in verità quella di tutti gli uomini catturati da Ferrara nelle sue opere, sia che si tratti di eroi protagonisti che di collettività o gruppi meno distinti. Di seguito all’esperienza colombiana, Ferrara gira, a ridosso dei fatti (1993), film omonimo sugli ultimi anni della vita del giudice antimafia Giovanni Falcone, in cui, accanto e attorno alla consolidata struttura di fiction, con il massiccio utilizzo di nomi noti a fare da richiamo, trovano posto brevi inserti documentari che assolvono una funzione mnemonica e, in qualche caso, patetizzante in direzione dello spettatore (così, quando Falcone annuncia al pentito Marino Mannoia lo sterminio della sua famiglia da parte dei “compari traditi”, scorrono sullo schermo immagini [fotografiche] di repertorio raffiguranti le reali scene di delitto e le vere vittime).
Nel 1995 tocca ai Servizi Segreti (deviati?) finire sotto la lente d’ingrandimento di Ferrara che, su soggetto del giornalista Andrea Purgatori, che per primo svelò i misteri nascosti dietro la caduta del DC-9 Itavia vicino l’isola di Ustica nell’estate del 1980, imbastisce, a partire da una strage in una stazione (inevitabile il richiamo alla bomba reale, quella esplosa alla stazione di Bologna sempre nel 1980), una storia, stavolta completamente “inventata”, di sotterfugi, coperture, soldi sporchi e Poteri Forti. Sette anni più tardi, e siamo giunti ormai a ridosso dei giorni nostri, un vecchio sogno si realizza: il film che racconta le oscure vicende del Banco Ambrosiano e del “banchiere di Dio” Roberto Calvi è realizzato tramite molteplici e variegati finanziamenti, fra cui quello della giovane costola produttiva della Televisione di Stato, Raicinema. Al posto di Volonté, deceduto da alcuni anni, e che Ferrara aveva sempre voluto in quel ruolo, c’è Omero Antonutti, ma lo spirito e le idee sono gli stessi del 1987. Qualcosa però è giocoforza cambiato: non si tratta più infatti di fare cronaca, ma si deve affrontare il complesso della Storia. (Fonte: Wikipedia)